I primati non umani sono ancora fondamentali in diversi campi scientifici, in particolare per i controlli regolatori sui farmaci. Tuttavia, è importante tenere in considerazione alcuni aspetti critici nell’impiego di questi animali, che infatti sono particolarmente tutelati dalla legislazione europea – aspetti che diventano ancor più importanti se si considera che alcune specie rischiano l’estinzione in natura

Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, l’uso di primati non umani è ancora necessario nella ricerca biomedica. A causa della loro vicinanza genetica agli esseri umani e delle loro abilità sociali altamente sviluppate, l’uso di primati non umani nelle procedure scientifiche solleva problemi etici e pratici specifici in termini di soddisfazione delle loro esigenze comportamentali, ambientali e sociali in un ambiente di laboratorio. Inoltre, l’uso di primati non umani è fonte di grande attenzione per l’opinione pubblica. Pertanto, il loro uso è consentito solo in quelle aree biomediche essenziali per il beneficio degli esseri umani, per le quali non sono ancora disponibili altri metodi alternativi di sostituzione. Il loro uso è consentito solo per la ricerca di base, per la conservazione delle rispettive specie di primati non umani o quando la ric, compreso lo xenotrapianto, viene svolto in relazione a condizioni potenzialmente pericolose per la vita degli esseri umani o in relazione a casi che hanno un impatto sostanziale sul funzionamento quotidiano di una persona, cioè condizioni debilitanti

Recita così l’articolo 17 della Direttiva 2010/63/EU per la tutela degli animali impiegati a fini scientifici. Si tratta del primo degli articoli dedicati ai primati non umani, indicati anche come specie of particular public concern (per esempio nei report annuali riportanti i dati sugli animali usati negli Stati membri), proprio a causa della prossimità evolutiva che hanno con noi umani. E c’è anche un altro aspetto che vogliamo evidenziare da subito: l’impiego di questi animali pone, almeno in alcuni casi, anche dei problemi per la loro conservazione in natura.

Purtuttavia, come specifica da subito la Direttiva, l’uso dei primati non umani è ancora necessario nell’ambito biomedico. In questo approfondimento cerchiamo dunque di riassumere alcuni degli aspetti principali sull’uso di queste specie: perché e in quali contesti sono importanti, cosa prevede la normativa europea e alcuni punti chiave sulle loro necessità per il benessere psicofisico.

Primati non umani: categorie d’impiego

«La principale categoria d’impiego per i primati non umani in UE – e, più in generale, a livello internazionale – è l’uso regolatorio: è quell’ampia branca di studi previsti dalla legislazione per la produzione, il mantenimento e la distribuzione di prodotti e sostanze, come i farmaci, sul mercato», spiega Augusto Vitale, ricercatore all’Istituto Superiore di Sanità e Segretario della Federazione Europea di Primatologia. «In questa categoria rientrano quindi, per esempio, i test di sicurezza e qualità, compresi quelli farmacologici. In particolare, la legislazione (europea ma, anche qui, in realtà la stessa cosa è prevista in gran parte del mondo) prevede che i test per i farmaci siano eseguiti su due specie, di cui una non sia un roditore. Questa è, di solito, un primate: la ragione sta nelle molte somiglianze che condividono con l’organismo umano, che consente di valutare gli effetti di una sostanza su organi e apparati ben più simili ai nostri di quanto non avvenga con altre specie».

«Una parte minima di primati è invece usata per gli studi di neuroscienze, dalla ricerca sui vari apparati e la ricerca comportamentale. Quest’ultima è forse quella che pone meno problemi etici, perché di norma non richiede alcun tipo di procedura invasiva e si basa soprattutto su studi osservazionali. In tutti questo casi, comunque, la ragione della scelta di usare i primati risiede nella possibilità d’indagare un organismo più simile a quello umano», continua Vitale. «In altre parole, dobbiamo avvalerci di questi animali in tutti quei casi in cui la vicinanza genetica con l’umano determina una somiglianza di funzione dei sistemi e degli apparati».

Le specie di primati coinvolte

Ma quali sono le specie coinvolte? Andando di nuovo a guardare la Direttiva 2010/63/EU, l’articolo 18 è dedicato alle grandi scimmie, cioè scimpanzé, bonobo, gorilla e orango (in effetti, a questa famiglia di Hominidae apparteniamo anche noi umani). È sempre per ragioni di prossimità evolutiva, nonché per le loro abilità sociali e comportamentali, che la Direttiva ne prevede l’impiego “solo ai fini della ricerca finalizzata alla conservazione di tali specie e qualora sia giustificato un intervento in relazione a una condizione di pericolo di vita o di debilitazione che mette in pericolo gli esseri umani, e non siano sufficienti altre specie o metodi alternativi per raggiungere gli obiettivi della procedura”. Inoltre, lo Stato che si trovasse in queste condizioni dovrebbe sottoporre la richiesta alla Commissione europea prima di procedere e, di fatto, le grandi scimmie non sono usate ormai da molti anni a fini scientifici in UE. In Italia, inoltre, il loro uso è esplicitamente vietato (articolo 7 del Decreto legislativo n. 26 del 4 marzo 2014, con il quale è recepita a Direttiva EU).

Quali sono, dunque, le specie di primate impiegate a fini scientifici? Secondo il report europeo pubblicato annualmente e contenente le statistiche su tutti gli animali usato dagli Stati membri (e che da due anni comprende anche i dati norvegesi), nel 2019 sono stati impiegati per la prima volta 7.457 primati (qui abbiamo riportato altri elementi significativi del report). Di questi, la maggior parte è rappresentata dal macaco cinomologo, seguita dal macaco rheso.

Rischio di estinzione e ricerca scientifica

Purtroppo, però, il macaco cinomologo (Macaca fascicularis) è a rischio di estinzione: l’International Union for the Conservation of Nature (IUCN), che fornisce nella sua Lista Rossa le informazioni più complete, a livello globale, sullo status di conservazione delle diverse specie di animali (ma anche di piante e funghi), lo classifica infatti come “minacciato”, con una popolazione molto frammentata e in continuo declino. Le ragioni sono naturalmente diverse e comprendono anche la perdita di habitat e la caccia, perché il macaco cinomologo può essere fonte di conflitti con la popolazione delle aree che abita e talvolta ne viene consumata la carne. Tuttavia, è soprattutto il commercio, legale e non, a rappresentare un elemento cardine del declino della popolazione. Secondo gli studi, gran parte di questo commercio è correlato proprio all’uso del macaco nella ricerca scientifica: rappresenta infatti un ottimo modello per lo studio di molti disturbi e malattie che interessano anche la nostra specie, dall’infezione da HIV all’obesità. Anche per un’altra specie molto impiegata in ricerca (sebbene, almeno in UE, molto meno del macaco cinomologo), il macaco nemestrino, è oggi valutata come minacciata.

La pandemia di COVID-19 ha dato un colpo ulteriore a questo commercio già costante, fiorente e deleterio per la conservazione della specie, che è in grado di sviluppare l’infezione da SARS-CoV-2 (sebbene con sintomi più lievi dei nostri) ed essere usata quindi come modello per lo studio della patologia e dei possibili trattamenti. La richiesta, da parte dei laboratori, di macachi da usare a questo scopo è cresciuta con lo scoppio della pandemia e, al contempo, la disponibilità di animali è calata sia negli Stati Uniti sia in Europa, perché la Cina ne ha interrotto le esportazioni.

«Il commercio è, oltretutto, terribilmente stressante e rischioso per questi animali: la cattura dallo stato naturale, la cattività e il trasporto possono provocare loro gravi danni e sofferenza», spiega Vitale. «Proprio per evitare questo, e insieme per tutelare le popolazioni in natura, la Direttiva 2010/63/EU si pone l’obiettivo di arrivare a usare solo individui nati e cresciuti in colonie d’allevamento. Il problema è che gli allevamenti in UE sono ancora molto pochi, e in Italia sono addirittura vietati». In effetti, come avevamo riportato qui, solo il 12% dei primati usati a fini scientifici nel 2019 (l’anno più recente per il quale sono disponibili le statistiche) proviene da allevamenti registrati in EU; una piccola percentuale arriva dall’America, ma oltre l’80% proviene dall’Asia e dall’Africa.

L’Unione Europea aveva anche previsto l’obbligo di impiegare solo animali di seconda generazione, almeno per quanto riguarda il macaco reso e cinomologo e per il marmoset. Lo studio di fattibilità su cui si era basata questa decisione, pubblicato nel 2017, infatti, concludeva che ciò fosse possibile – salvo la possibilità di deroga a tale obbligo nel verificarsi di eventi straordinari quali pandemie virali. È esattamente quanto successo nel 2019 con la pandemia di COVID-19 – che, come detto, ha avuto già un impatto profondo sulla disponibilità di primati in UE.

Una questione di benessere (anche per una ricerca di qualità)

L’importazione degli animali da aree diversa da quelle in cui verranno poi impiegati pone non pochi problemi, di varia natura. «Innanzitutto, in termini di benessere, perché significa imporre loro viaggi più o meno lunghi e stressanti, ma anche la necessità di abituarsi a un nuovo ambiente, alla nuova routine del laboratorio. Inoltre, non avere allevamenti “in casa” rende necessariamente più difficile il controllo sull’allevamento: in EU devono essere rispettati criteri ben definiti che garantiscano la salute e il benessere dell’animale, ma le norme possono ovviamente essere molto diverse altrove», commenta Vitale. In particolare, i primati non hanno bisogno solo di un ambiente fisico idoneo, con spazi, cibo e acqua adeguati, ma anche di un ambiente sociale di qualità: per questa ragione, per esempio, non è ammesso siano separati, se non in casi particolari, ma devono poter vivere almeno in coppie. «In alcuni progetti ben finanziati (non possiamo dimenticare che la ricerca sui primati è impegnativa anche dal punto di vista economico), si riescono a creare gruppi anche più grandi. Inoltre, per questi animali è fondamentale un rapporto personale con ricercatori e staff di alta qualità e la possibilità di avere stimolazioni cognitive: quando il Consiglio Superiore di Sanità compie le valutazioni sui progetti che coinvolgono primati non umani, tutti questi sono elementi tenuti in considerazione», aggiunge il ricercatore.

In secondo luogo, l’importazione dei primati rischia di alimentare il mercato illegale, con individui prelevati in natura e usati come riproduttori, o semplicemente dotati di documentazione falsa per l’esportazione, come avvenuto lo scorso novembre negli Stati Uniti. Ancora, entrambi questi elementi possono ripercuotersi sulla ricerca stessa, perché come abbiamo scritto più volte, un animale stressato e sofferente risponderà ai test in modo differente da un animale in buono stato psico-fisico; ancora di più, perlomeno per alcuni tipi di studi, la mancanza di un background noto dell’individuo – come inevitabilmente avviene se prelevato in natura – può portare risultati deleteri.

«I primati sono ancora fondamentali in molti campi della ricerca – e in alcuni casi, come quello delle neuroscienze, difficilmente saranno sostituibili in tempi brevi. Tuttavia, questa situazione mette in luce con chiarezza non solo la necessità di continuare a investire per la ricerca sui metodi alternativi e mantenere elevati i controlli sulla provenienza degli animali, ma anche di investire sugli allevamenti in Unione europea», conclude Vitale.

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