Il benessere degli animali da laboratorio dipende da molti fattori. Tra cui, evidenziano gli studi, il sesso dell’operatore/trice, che si è dimostrato in grado di influenzare stress, comportamento e persino la risposta ai farmaci

Quando si parla di benessere degli animali da laboratorio, si pensa subito alla qualità della gabbia, all’arricchimento ambientale, al cibo, alla manipolazione ottimale o alla minimizzazione delle procedure invasive.

Ma c’è un altro fattore da considerare, meno visibile eppure determinante: la relazione tra l’animale e chi lo manipola. Negli ultimi anni, la ricerca ha mostrato come persino il sesso dell’operatore/trice possa incidere sul livello di stress e quindi sul benessere degli animali. Un aspetto che, se ignorato, può influire non solo sulla qualità della vita degli animali, ma anche sulla validità dei dati scientifici raccolti. Perché, come sempre, il benessere per gli animali non è solo una questione etica (che sarebbe comunque ampiamente sufficiente a giustificare l’attenzione nei suoi confronti): lo stress o la sofferenza di un animale hanno un effetto diretto anche sui risultati scientifici.

La variabile umana

Molte persone possono aver notato come gli animali domestici si rapportano in modo differente con gli uomini e le donne; in rete, per esempio, si trovano diversi articoli che parlano del maggior timore dei cani, soprattutto quelli provenienti da rifugi e canili, per gli uomini. Se questo particolare aspetto per ora rimane più che altro a livello aneddotico, per gli animali da laboratorio (e alcune specie in particolare), l’“effetto operatore maschio” è invece ben documentato.

Anche se non da moltissimo tempo: uno dei primi studi sul tema risale ad appena una decina d’anni fa, quando Nature Methods ha pubblicato un articolo che dimostrava come ratti e topi esposti all’odore maschile umano mostrassero una risposta di stress, con conseguente analgesia (inibizione del dolore). Che non si presentava, però, in risposta all’odore di una donna. Il gruppo di ricerca, guidato all’Università di Montreal, ha dimostrato anche che l’effetto era dovuto a molecole chimiche. «I nostri risultati suggeriscono che una delle principali ragioni per cui non sempre gli studi riescono a essere replicati [in laboratori diversi] è il genere di chi conduce l’esperimento», ha commentato in un comunicato uno degli autori della ricerca.

Perché è proprio questo un aspetto cruciale: non sempre uno studio condotto da un team dà risultati uguali quando condotto in un altro laboratorio. Le variabili che possono influenzare un esperimento sono moltissime, e non a caso nelle pubblicazioni scientifiche è sempre compresa una sezione dedicata a spiegare nel dettaglio i materiali e i metodi utilizzati. Se anche solo un reagente leggermente diverso può alterare i risultati sperimentali, è facile intuire che quando si lavora con organismi viventi, e inevitabilmente complessi, influenzati da genetica, ambiente, esperienze eccetera, le variabili aumentano in modo esponenziale.

D’altronde, gli animali sono ancora oggi l’unica possibilità, in molti campi, per acquisire conoscenze che non potremmo ottenere altrimenti. Inevitabile, però, è tenere in considerazione alcuni aspetti di incertezza, e minimizzarli dove possibile – compresa una valutazione attenta delle variabili che possono entrare in gioco. Tra cui emerge appunto anche quella rappresentata dal sesso dell’operatore.

Operatore oppure operatrice

Non stupisce quindi che gli studi sull’effetto del sesso dello sperimentatore (o della sperimentatrice) siano proseguiti nel tempo. Nel 2017, uno studio pubblicato su Nature ha mostrato come la differenza di genere influenzi anche la risposta farmacologica. Il lavoro si basava sul test del nuoto forzato, un tipo di esperimento usato per indagare per esempio la risposta ai farmaci antidepressivi: un ratto (o un topo) è posto in un contenitore pieno d’acqua, in cui non tocca il fondo. Se rimane quasi fermo, senza nuotare o cercare di scalare le pareti, il comportamento è considerato analogo a uno stato depressivo, che appare ridotto dall’uso di antidepressivi. Al di là di alcuni limiti di questo tipo di test, ciò che il team di ricerca ha osservato è che se a condurre l’esperimento è un uomo, la ketamina (un farmaco molto studiato per i suoi effetti antidepressivi) agisce come antidepressivo; un effetto simile si osserva se a condurre l’esperimento è una donna che indossa abiti precedentemente indossati da un uomo. Rimuovendo gli odori con una cappa aspirante, non si osservava più alcun effetto.

Nel 2022 la ketamina e il sesso dell’operatore/trice è tornato in ballo con un altro studio. Il gruppo di ricerca ha prima verificato che i topi mostravano avversione per l’odore maschile e diventavano più sensibili allo stress se manipolati da uomini, e ha poi dimostrato come questo effetto sia dovuto all’attivazione di specifici neuroni legati allo stress. Quindi ha valutato la risposta alla ketamina. Il risultato? L’esposizione dei topi all’odore maschile prima della somministrazione di ketamina modifica l’efficacia dell’antidepressivo, perché attiva i circuiti neuronali dello stress.

Ulteriori ricerche hanno approfondito i meccanismi coinvolti nella differente risposta al sesso dello sperimentatore. Per esempio, un lavoro del 2022 suggerisce che siano le femmine (nello specifico setting sperimentale, di ratto) a essere maggiormente influenzate. In particolare, lo studio ha mostrato come i ratti femmina l’esposizione a un operatore maschio reagiscano mettendo in atto più comportamenti legati all’ansia, aumentando le temperatura corporea superficiale e i livelli di cortisolo (un ormone correlato allo stress), mentre si abbassano i livelli di ossitocina (un ormone correlato invece agli stati di benessere). Tutte queste risposte sembrano dipendere da segnali sia olfattivi sia visivi, e gli effetti erano meno marcati e consistenti nei ratti maschi.

Ancora, un recentissimo studio ha indagato nei topi come il sesso dell’operatore umano influisca sul comportamento legato all’ansia, sulla memoria della paura e sull’espressione del gene dell’ossitocina (Oxt) nelle cellule della microglia, cioè cellule immunitarie del cervello. I topi (maschi e femmine) sono stati manipolati per una settimana con un metodo delicato (cup handling), da operatori uomini o donne. Dopo la manipolazione, sono stati sottoposti a test comportamentali per misurare l’ansia e a un test di condizionamento alla paura (con una lieve scossa elettrica); sono stati anche misurati i livelli di Oxt nei microglia (cellule immunitarie del cervello). In questo caso, i risultati hanno mostrato che i topi maschi manipolati da donne avevano meno comportamenti ansiosi, e aumentavano i livelli di trascrizione di Oxt, effetti non presenti se manipolati da uomini. Inoltre, durante il test di condizionamento alla paura, mostravano meno timore se erano stati manipolati da donne. Questa volta, sono state le femmine a non dare differenze di risposta significative in base al sesso dell’operatore.

Il sesso di chi conduce l’esperimento: implicazioni pratiche

Tirando le somme, questo recente filone di ricerca sta dimostrando che il sesso dell’operatore/trice (senza contare le molte sfumature che sesso e genere hanno, basti pensare alle persone intersex) non è un semplice dettaglio per il benessere degli animali – né, di conseguenza, nel protocollo sperimentale. Anzi, può influenzare la risposta a farmaci e trattamenti, alterare il comportamento degli animali e modificare i loro parametri fisiologici.

Di conseguenza, raccomandano i diversi studi, è importante cercare di minimizzare l’effetto del sesso di sperimentatori e sperimentatrici sugli animali: bilanciare uomini e donne per ridurre l’impatto di un solo tipo di manipolazione, cercare di mantenere costante il sesso durante le fasi più critiche (come la manipolazione) per standardizzare l’esposizione degli animali, formare il personale su come le proprie caratteristiche possano influenzarli e, naturalmente, prevedere un’acclimatazione graduale con l’operatore/trice (d’altronde, su questo punto, va detto che è noto da tempo come la familiarità degli animali con chi li manipola abbia un notevole effetto sui risultati sperimentali).

Da ultimo ma non meno importante, è riportare sempre il sesso degli operatori nei metodi degli studi preclinici, un aspetto che si potrebbe inserire agevolmente nelle politiche SABV (Sex as a Biological Variable), istituite anche dalla Commissione europea. Perché, anche oltre al gender bias che ancora ostacola la ricerca biomedica, diventa sempre più evidente come il genere possa influire su molti altri aspetti degli studi.

Lascia un commento