La possibile interruzione degli studi sui primati negli Stati Uniti e le iniziative analoghe in Europa riaprono il dibattito su uno dei temi più delicati della ricerca biomedica. Tra vincoli etici, tutela della biodiversità e sviluppo di alternative, resta la domanda cruciale: esistono già oggi campi della scienza in cui i primati sono davvero sostituibili?
È notizia recente: il Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti ha richiesto ai CDC, l’agenzia federale per la prevenzione e il controllo delle malattie, di interrompere tutti gli studi sui primati. Come riporta Science, questo coinvolgerebbe circa 200 macachi, il cui destino risulta incerto tra il ritiro nei santuari e l’eutanasia, usati soprattutto nello studio di malattie infettive quali per esempio HIV ed epatite.
Questa notizia si inserisce in un panorama più ampio relativo all’uso dei primati non umani nella ricerca biomedica. Per esempio, l’Olanda ha approvato un emendamento che prevede di interrompere gli studi sui primati del Biomedical Primate Research Centre entro il 2030, iniziando già dal 2026 a destinare il 40% dei suoi fondi a metodi alternativi o NAM (New Approach Methodologies). E sia in Canada sia in Germania sono state presentate petizioni per interrompere la ricerca sui primati.
Ma è davvero possibile una ricerca senza questi animali?
La ricerca sui primati tra vincoli etici, normativi e di conservazione
Delle ragioni e dei limiti della ricerca sui primati, non meno che degli aspetti normativi nell’Unione europea, abbiamo già parlato in passato. Ricapitolando brevemente, nell’UE i primati sono considerati specie of particular concern per la loro vicinanza evolutiva con gli umani e per le loro abilità sociali e comportamentali. Tanto che l’uso ne è consentito «solo ai fini della ricerca finalizzata alla conservazione di tali specie e qualora sia giustificato un intervento in relazione a una condizione di pericolo di vita o di debilitazione che mette in pericolo gli esseri umani, e non siano sufficienti altre specie o metodi alternativi per raggiungere gli obiettivi della procedura» (ricordiamo che l’uso di metodi alternativi dove disponibili è comunque obbligatorio anche per ogni altro animale).
Inoltre, è bene ricordare che alcuni primati, tra cui spicca il macaco cinomologo, sono a rischio di conservazione in natura, un altro importante aspetto da considerare tra i limiti degli studi con i primati. D’altronde, l’UE incentiva da anni il ricorso a colonie auto-sostenute di primati per evitare il ricorso all’importazione dall’estero, che pone maggiori difficoltà di controllo sul benessere degli animali e il rischio di prelievi in natura. Tuttavia, anche se i primati rappresentano una percentuale molto limitata degli animali usati a fini scientifici, le colonie europee non sono neanche lontanamente sufficienti a garantire il numero di primati necessari alla ricerca europea.
L’importanza dell’uso dei primati
Eppure, anche a fronte di queste considerazioni, ci sono ambiti della ricerca per i quali i primati non umani sono davvero difficili da sostituire. Le ragioni risiedono negli stessi motivi che hanno portato a vincoli più stretti sul loro uso: la loro vicinanza alla nostra specie. Se in tutti i campi della ricerca biomedica vale il principio che si scelgono le specie in virtù della loro somiglianza con la nostra, si può capire perché i primati possano essere così importanti: sono di gran lunga tra gli animali più vicini a noi umani. In altre parole, essendo così vicini a noi dal punto di vista biologico (in senso lato: genetico, anatomico, fisiologico eccetera), offrono una probabilità molto alta di dare risultati equivalenti a quelli che si osserverebbero negli umani. Non a caso, il loro uso a fini scientifici si concentra essenzialmente nell’ambito regolatorio, quello volto allo sviluppo e all’approvazione di farmaci, dispositivi medici e altre terapie.
Dal punto di vista della ricerca di base, quella volta alla comprensione degli aspetti e dei meccanismi biologici, sempre i primati rappresentano un modello essenziale perché permettono di indagare e studiare vie metaboliche e biochimiche, processi infettivi e vari altri elementi che trovano riscontro nella nostra specie. Uno degli esempi più significativi è rappresentato dalla ricerca sull’infezione da HIV/AIDS: primati come i macachi hanno non solo un sistema immunitario simile al nostro, ma possono anche essere infatti infettati da un virus molto simile (Simian Immunodeficiency Virus, SIV) e, non da ultimo, sono molto longevi, un aspetto essenziale per studiare una patologia che può richiedere anche più di dieci anni a manifestarsi.
Ma questo è davvero solo un esempio tra tanti, perché i primati sono ancora i modelli spesso migliori – cui si arriva comunque di frequente dopo studi condotti prima su modelli in vitro, che non prevedono l’uso di animali, e su altre specie – per varie patologie neurodegenerative, o metaboliche (per esempio, i primati sviluppano il diabete di tipo 2 come gli umani, seguendo lo stesso pattern temporale e le stesse complicanze che si osservano nella nostra specie), o infettive eccetera.
Decisioni rapide e conseguenze a lungo termine
Nel contesto statunitense, la richiesta di interrompere la ricerca con i primati ai CDC arriva a pochi mesi di distanza dalla decisione dell’ente regolatorio per i farmaci, la FDA, di avviare una transizione che consente l’uso di metodi alternativi validati (ne abbiamo parlato qui) – comunque nel solo ambito della ricerca preclinica e regolatoria. Peraltro, mentre i CDC hanno cercato di spingere per un abbandono più graduale di questi studi (l’interruzione netta dei programmi in corso significherebbe uno spreco di risorse in tempo e denaro), l’amministrazione US ha chiesto tempi rapidi.
Come ben evidenzia la European Animal Research Association (EARA) in un commento, proprio la velocità della richiesta rappresenta già un punto critico, perché i programmi di ricerca biomedica richiedono modifiche ponderate e decisioni di tale portata devono essere evidence-based e basate sulla trasparenza. «Questa è una decisione molto problematica, non da ultimo perché sembra essere guidata da ideologie politiche invece che dalle necessità scientifiche». Continua EARA: «Mentre chi ha proposto [il termine della ricerca sui primati] sostiene che siano già a disposizione alternative, i ricercatori che lavorano in questo campo sono categorici: per la ricerca su alcune malattie infettive (…) semplicemente non esistono alternative adeguate all’uso dei primati».
Vale anche la pena ricordare che le implicazioni di questo cambiamento sono sì di risultati scientifici ma, di conseguenza, anche della tutela della salute di milioni di persone al mondo. Quindi, forse, il punto più cruciale non è se la ricerca possa fare a meno dei primati, ma su quali basi si debba decidere questo cambiamento: come Research4Life, rispondiamo che dovrebbe essere il metodo scientifico a guidarla, per poterne garantire l’affidabilità e la credibilità. Come conclude Giuliano gRignaschi, portavoce di Research4Life:«La storia ci ha insegnato che, a volte, le decisioni politiche si allontanano dalla realtà scientifica. Per non fare più ricorso agli animali, sui primati come su ogni altra specie, in accordo con la sensibilità di ogni ricercatore e ricercatrice non meno di quanto incoraggiato a livello legislativo, dunque, dobbiamo aspettare le evidenze scientifiche».
