Uno studio guidato dall’Università di Stanford mostra come un farmaco sperimentale sia in grado di invertire i danni neuronali in alcune forme di malattia di Parkinson a base genetica

Dopo quella di Alzheimer, la malattia di Parkinson rappresenta la patologia neurodegenerativa più diffusa a livello globale, e l’Organizzazione mondiale della sanità stima che i casi siano raddoppiati nel corso degli ultimi 25 anni circa. Per la malattia di Parkinson non solo non esiste una cura risolutiva (sebbene i trattamenti possano migliorarne i sintomi), ma non sono neanche del tutto note le cause. Almeno nella maggioranza dei casi: per un quarto circa di essi, però, è possibile ricondurla a mutazioni genetiche specifiche.

È vero, la genetica è un fattore di rischio non modificabile che permette di agire solo in modo limitato per quanto riguarda la prevenzione delle malattie. Se una patologia ha una causa genetica nota, però, possiamo lavorare su di essa in termini di trattamento. È quando ha fatto il gruppo di ricerca guidato dall’Università di Stanford, che in un recente articolo ha presentato un promettente approccio terapeutico per la malattia di Parkinson dovuta a mutazioni del gene LRRK2, testato su topi geneticamente modificati.

Una comunicazione necessaria per la sopravvivenza

Dei – solo relativamente – rari casi di malattia di Parkinson dovuta a chiare cause genetiche, le mutazioni nel gene LRRK2 sono le più comuni. Questo gene permette di produrre un tipo di proteina noto come tirosin chinasi, un gruppo di enzimi che svolge diverse funzioni essenziali nelle cellule. Nel caso specifico di LRRK2, la sua tirosin chinasi ha un ruolo particolarmente importante nel cervello, dove tra le altre cose contribuisce alla regolazione del traffico intracellulare e nel controllo della formazione delle ciglia primarie. Queste ultime sono strutture simili a piccoli antenne sulla superficie delle cellule, necessarie per ricevere e inviare le comunicazioni. In particolare, in condizioni fisiologiche le ciglia primarie consentono una sorta di continua comunicazione tra i neuroni dopaminergici, quelli che producono il neurotrasmettitore dopamina, essenziale per il movimento volontario, tra le aree cerebrali dette substantia nigra e striato.

E sono proprio i neuroni dopaminergici della substanzia nigra a essere interessati dalla malattia di Parkinson, che ne causa una degenerazione; questa ha conseguenze anche per i neuroni dello striato, che non ricevono più un’adeguata stimolazione dopaminergica. Si dice che la morte di molte relazioni dipenda dalla morte della comunicazione, e questa massima sembra vera anche per i neuroni. Come ha spiegato in un comunicato Susanne Pfeffer, senior author dello studio, infatti, «Molti processi essenziali per la sopravvivenza delle cellule sono regolati dalle ciglia, che inviano e ricevono segnali. Le cellule dello striato che secernono fattori neuroprotettivi in risposta a questi segnali hanno bisogno di quegli stessi segnali anche per la propria sopravvivenza. Riteniamo che queste cellule siano destinate a morire quando perdono le ciglia, che necessarie per ricevere i segnali che le mantengono in vita».

Ecco allora che LRRK2 potrebbe essere la chiave per impedire la perdita di comunicazione: le mutazioni genetiche che determinano il Parkinson, infatti, rendono l’enzima iperattivo e portano alla distruzione di quelle ciglia essenziali per il dialogo neuronale.

Un inibitore per LRRK2

Da qui, la decisione del gruppo di ricerca di tentare una terapia che miri proprio a inibire l’enzima iperattivo. Ricercatori e ricercatrici si sono basati su topi geneticamente modificati per presentare una mutazione di LRRK2 presente anche nei pazienti umani: infatti, il gene è altamente conservato nelle due specie, sia in termini di sequenza genica sia in termini di funzione. Vale la pena precisare che, nei topi, la mutazione studiata non causa esattamente gli stessi sintomi che si osservano negli umani (per esempio, non si presentano sintomi motori gravi), ma determina comunque l’iperattività della tirosin chinasi e la perdita delle ciglia neuronali.

Ai topi è stato somministrato un farmaco denominato MLi-2, che ha due caratteristiche: agisce in modo molto selettivo sull’enzima LRRK2 ed è in grado di raggiungere il cervello – un aspetto di non poco conto, perché una delle difficoltà per il trattamento di malattie che interessano l’encefalo è proprio riuscire a farvi arrivare i farmaci, superando la barriera ematoencefalica che ostacola il passaggio di molte sostanze. Un altro aspetto vantaggioso di MLi-2 è che può essere somministrato per via orale, per cui è stato sufficiente unirlo al mangime dei topi.

Verso un trattamento per le forme genetiche di Parkinson

Dopo tre mesi di trattamento, il gruppo di ricerca ha potuto osservare il ripristino delle ciglia primarie nei neuroni dello striato, il recupero delle vie di segnalazione, un aumento dei processi dopaminergici e anche un incremento delle molecole a funzione neuroprotettiva. In altre parole: le alterazioni causate dalle mutazioni di LRRK2 sono reversibili, e MLi-2 è in grado di ripristinare le ciglia e le funzioni di neuroprotezione, anche su cellule già mature. «Questi risultati suggeriscono che potrebbe essere possibile migliorare, e non solo stabilizzare, le condizioni delle persone con malattia di Parkinson [dovuta a mutazioni di LRRK2]», ha commentato Pfeffer.

È importante precisare due punti. Innanzitutto, i topi sono stati trattati quando il danno alle ciglia era già presente, ma non vi era ancora stata una degenerazione neuronale irreversibile. MLi-2 non è in grado di sostituire i neuroni perduti, può solo invertire una parte del danno: l’intervento precoce rimane dunque fondamentale.

Inoltre, la strada per una terapia umana rimane lunga, ed è possibile non vada a buon fine – d’altronde, come abbiamo raccontato qui, il percorso che porta all’approvazione di un farmaco non può essere breve, se vuole garantirne tanto l’efficacia quanto la sicurezza. Ma questi primi risultati sono un’ottima base di partenza, e ora il team di ricerca intende valutare se anche altre forme di Parkinson, non dovute a mutazioni di LRRK2, potrebbero beneficiare del trattamento. «Sono in corso molti trial clinici basati sull’uso di inibitori di tirosin chinasi, e la nostra speranza è che i risultati ottenuti nei topi si confermino validi anche negli esseri umani», ha concluso Pfeffer.

Lascia un commento