Uno studio firmato da ricercatori e ricercatrici dell’Università di Torino, in collaborazione con un premio Nobel americano, presenta i risultati promettenti di una molecola sintetica per il trattamento dell’atrofia muscolare spinale, una rara malattia genetica dell’infanzia: somministrata nei topi, infatti, determina diversi effetti positivi a livello dei muscoli e del sistema nervoso

Sono ancora molte, purtroppo, le patologie neurodegenerative per le quali non abbiamo una cura; per alcune però gli avanzamenti scientifici strategie di trattamento sempre più efficaci sono all’orizzonte. Tra queste, l’atrofia muscolare spinale (SMA), una rara malattia genetica dell’infanzia che interessa i motoneuroni, cioè cellule nervose che determinano la contrazione dei muscoli scheletrici. Se, fino a pochi anni fa, l’unico possibile trattamento era sintomatico, a partire dal 2016 sono disponibili terapie specifiche che agiscono contrastando, in modi diversi, la disfunzione del gene interessato. Tuttavia, non rappresentano una cura e la ricerca scientifica sulla SMA è ancora molto attiva nel cercare d’identificare ulteriori strategie di supporto e trattamento.

È in questo contesto che si posiziona un recente studio pubblicato su PNAS e firmato da ricercatori e ricercatrici dell’Università di Torino, in collaborazione con un premio Nobel statunitense. Il lavoro presenta i risultati di una ricerca, condotta nei topi, su una molecola che ha dimostrato di essere in grado di rallentare la progressione della SMA e di avere diversi effetti positivi, rappresentando quindi una possibile nuova terapia per la malattia.

Atrofia muscolare spinale, le terapie disponibili

L’atrofia muscolare spinale è una malattia genetica recessiva: dipende infatti da mutazioni nel gene SMN1, che non è in grado di produrre una proteina necessaria per la sopravvivenza dei motoneuroni denominata SMN (Survival Motor Neuron). La mancanza di questa proteina fa sì che i pazienti presentino debolezza, progressiva difficoltà motoria, fino all’insufficienza respiratoria. Esistono diverse forme della malattia: nell’uomo, infatti, vi è un secondo gene, SMN2, che produce una ridotta percentuale di proteina SMN funzionante che quindi può solo in parte supplire a quella mancante: a seconda di quanta proteina riesce a essere prodotta da SMN2, la patologia risulta più o meno grave, e l’insorgenza dei sintomi più o meno precoce.

«I trattamenti a oggi disponibili si basano sulla terapia genica, che consente di sostituire il gene SMN1 mutato, oppure cercano di far produrre al gene SMN2 una maggior quantità di proteina funzionale. Tuttavia, questi trattamenti presentano ancora dei limiti », spiega Alessandro Vercelli, direttore del gruppo di ricerca Sviluppo e patologia del cervello del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi (NICO) dell’Università di Torino e tra gli autori dello studio. «Infatti, innanzitutto non sono idonei a tutti i pazienti. Poi, sebbene la mutazione che causa la malattia sia molto specifica, l’espressione di SMN è ubiquitaria nel nostro corpo: anche se a risentire della mancanza di SMN sono particolarmente i motoneuroni, anche i muscoli stessi subiscono degli effetti negativi, così come altri organi del corpo, come cuore e pancreas, tanto da essere ormai considerata una malattia multi-sistemica. Inoltre, le terapie a disposizione sono unicamente SMN-dipendenti, ma altri meccanismi sembrano contribuire alla patologia costituendo quindi interessanti bersagli terapeutici, che potrebbero consentire una terapia complementare».

MR-409: un peptide sintetico dagli effetti protettivi

Il gruppo di ricerca che ha condotto il lavoro studia la SMA da ormai oltre 15 anni, inizialmente sostenuto dalle associazioni di pazienti e poi da diversi altri enti. Ma la molecola che ha attirato il loro interesse proviene, in un certo senso, da un altro ambito: si tratta infatti di un peptide sintetico prodotto negli Stati Uniti, nel laboratorio di Andrew Viktor Schally, co-autore dello studio e premio Nobel per la Medicina per le sue scoperte riguardanti la produzione degli ormoni peptidici nell’encefalo. Denominato MR-409, il peptide sintetico è stato studiato da Riccarda Granata e Ezio Ghigo, della Divisione di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Torino: «I colleghi e le colleghe vi hanno lavorato per diversi anni, anche in ambiti diversi, e ne hanno evidenziato alcuni effetti che lo rendevano promettente anche per la SMA, tra cui gli effetti di protezione del muscolo e dei neuroni, nonché quelli anti-infiammatori», spiega Marina Boido, professoressa all’Università di Torino, ricercatrice del NICO e co-autrice dello studio. «Sulla base di questi risultati, abbiamo deciso di testare MR-409 anche sul nostro modello murino di SMA: si tratta di topi transgenici che ricapitolano molto bene il decorso della malattia in una forma piuttosto grave. I precedenti studi condotti in vitro sulla molecola sono stati importanti per comprenderne il meccanismo d’azione, ma i topi sono essenziali per poter valutare la reale efficacia in vivo, perché per malattie complesse servono animali complessi, che ci permettano di eseguire le valutazioni su tutto l’organismo».

MR-409 è un agonista (ha, cioè, la stessa funzione) del fattore ipotalamico che stimola la produzione ed il rilascio dell’ormone della crescita (GHRH): si tratta quindi di un ormone che agisce principalmente sull’ipofisi (dove viene prodotto l’ormone della crescita) ma che ha recettori, e può esercitare effetti diversi, anche in altri distretti del corpo – compresi i muscoli. «Nei topi affetti da SMA, infatti, abbiamo potuto osservare l’effetto protettivo con risultati piuttosto evidenti: iniettato sottocute, MR-409 attenuava l’atrofia delle fibre muscolari e, al contempo, migliorava la motilità e favoriva la maturazione delle giunzioni neuro-muscolari. In aggiunta, abbiamo osservato effetti neuroprotettivi a livello del midollo spinale, nel quale risultava prevenuta la perdita di motoneuroni e ridotta la neuroinfiammazione; i topi trattati aumentavano anche di peso, perché il muscolo risultava più trofico», spiega Marina Boido. «Abbiamo testato MR-409 a diverse concentrazioni, osservandone un effetto dose-specifico che ci ha consentito d’individuare la dose più efficace. Per questa ragione, il nostro studio suggerisce la possibilità di continuare gli studi su MR-409 per arrivare a portarla in futuro nella pratica clinica umana, come terapia complementare a quelle a oggi disponibili per l’atrofia laterale amiotrofica. In questo modo, le terapie tradizionali possono continuare a essere impiegate per supplire alla produzione della proteina SMN mancante, mentre l’impiego congiunto di MR-409 agirebbe su altri target dell’organismo». «Anche perché va evidenziato come il miglioramento osservato in termini di aumento della forza muscolare e performance motorie potrebbe riflettersi su una maggior capacità di movimento, e quindi d’indipendenza, dei pazienti – uno degli elementi oggi più invalidanti della patologia», aggiunge Alessandro Vercelli.

Il percorso per portare MR-409 nella medicina umana si prospetta ancora abbastanza lungo: innanzitutto, i ricercatori stanno cercando di rendere più stabile la molecola, e dovranno poi essere condotti i test di tossicità (che prevedono sempre l’impiego di animali), prima di poter arrivare alla sperimentazione clinica. Rimangono però risultati significativi e incoraggianti per la possibilità di migliorare sempre più la vita di chi è affetto da SMA, e che si aggiungono a quelli, anch’essi positivi, di questa classe di molecole per il trattamento di altre patologie, tra cui alcune forme tumorali.

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