Il disturbo da uso di alcol è una patologia complessa, difficile da studiare. Ma un modello c’è: il ratto alcol-preferente, che presenta comportamenti molto simili a quelli osservati negli umani

Il 9 gennaio 2004 ero un medico franco-americano bianco di 50 anni con dipendenza da alcol e un disturbo d’ansia preesistente. Dal 1997 ci sono stati numerosi ricoveri d’emergenza, visite al pronto soccorso, disintossicazioni, anni di trattamenti sia in regime di ricovero che ambulatoriale […] Il 9 gennaio 2004, giorno 1 dell’astinenza dopo una ricaduta, ho iniziato un trattamento riabilitativo in monoterapia orale con baclofene. […] Alla fine del mio nono mese di completa liberazione dai sintomi della dipendenza da alcol, continuo a sentirmi indifferente all’alcol. L’astinenza è diventata naturale per me. Non organizzo più la mia vita attorno all’alcol.

Scrive così, in un self-case report, il medico Olievier Ameisen, raccontando la propria esperienza di trattamento del disturbo di uso da alcol con il baclofene, un farmaco usato principalmente per trattare spasticità muscolare dovuta a condizioni come sclerosi multipla. Ma che, come si intuisce già dall’esperienza di Ameisen, è di grande interesse anche per il disturbo da uso di alcol: è tra i farmaci raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità a questo scopo, anche se in Italia il suo uso è ancora off label.

E, come gli altri farmaci usati nel trattamento dei disturbi da uso di sostanze, le ricerche sulla sua sicurezza ed efficacia sono partiti dai modelli animali. Ma come può un ratto, una delle specie più utilizzate per studiare queste malattie, sviluppare una preferenza patologica per gli alcolici?

Un modello animale per il disturbo da uso di alcol

Non ci pensiamo spesso, ma in natura sono facilmente disponibili diverse sostanze psicoattive. L’alcol è una di queste, e molte specie hanno mostrato di consumare frutta fermentata, ricca di alcol, sperimentandone gli effetti. A volte, anzi, la ricercano in modo attivo: in effetti, uno studio del 2008 ha mostrato il regolare consumo di alcol in un piccolo mammifero arboricolo del Sud-est asiatico, la tupaia dalla coda a pennello, e una review pubblicata quest’anno evidenzia come questo comportamento, lungi dall’essere proprio degli umani, possa anzi aver modellato l’evoluzione di molte specie.

Se dal punto di vista evolutivo ed ecologico le ragioni di questa preferenza non sono del tutto chiare, è invece ben noto a chi lavora sui disturbi di uso da sostanze negli animali da laboratorio che questo comportamento è intrinseco, almeno per alcuni individui. «Topi e ratti possono assumere spontaneamente quantità di alcol elevate, o comunque rilevanti da un punto di vista psicofarmacologico, cioè tali da avere effetti misurabili sul loro comportamento», spiega Giancarlo Colombo, dirigente di ricerca presso la sede di Cagliari dell’Istituto di Neuroscienze del CNR. Ecco perché questi animali sono ottimi modelli per studiare il disturbo da uso di sostanze, alcol incluso.

Che ci siano individui, anche tra i ratti, più propensi di altri ad assumere dosi elevate di alcol, è uno degli elementi che suggerisce come questi disturbi abbiano una componente genetica, oltre che ambientale. D’altronde, è noto che si tratta di patologie complesse, non certo semplici vizi o “debolezze di carattere”. Un aspetto importante da sottolineare, però, è che sebbene questa preferenza si presenti in modo spontaneo nei ratti, vi è anche un intervento umano per selezionare linee alcol-preferenti. In altre parole, è comunque necessario creare un modello di questo complesso disturbo, attraverso incroci selezionati, che consenta di studiarne gli aspetti genetici e neurobiologici e indagarne i possibili trattamenti farmacologici in modo riproducibile e standardizzato.

«Non sono animali geneticamente modificati, ma selezionati da una popolazione di partenza di comuni ratti di laboratorio (si parla di foundation stock) nella quale vengono selezionati gli individui che, posti a scegliere liberamente tra acqua e soluzione alcolica, mostravano una preferenza per l’alcol. Questi sono fatti incrociare tra loro: dopo la trentesima generazione, tutti i ratti mostravano una chiara preferenza per l’alcol, del quale consumavano elevate quantità», spiega Colombo.

I tratti comportamentali che i ratti alcol-preferenti hanno in comune con le persone con disturbo da uso di alcol sono molto significativi.

In effetti, questo è uno dei contesti in cui l’uso degli animali mostra appieno la sua imprescindibilità, proprio perché si tratta di una patologia che influenza non solo il fisico ma anche il comportamento – un elemento, quest’ultimo, impossibile da replicare in un modello alternativo (o, più propriamente, in un New Methodology Approach o NAM, sebbene gli avanzamenti tecnologici, in particolare per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, possano oggi fornire un valido contributo). «Questi ratti consumano alcol fino a intossicarsi; il prolungato consumo induce la tolleranza (cioè l’effetto diminuisce con l’uso ripetuto, portando a cercarne dosi più massicce) e il consumo avviene nonostante le conseguenze avverse, tutti elementi che si osservano anche negli umani e che infatti sono tenuti in considerazione per la diagnosi del disturbo da uso di alcol», continua il ricercatore. «Certo, i NAM possono darci alcune indicazioni, per esempio i recettori cui si lega un eventuale farmaco, ma non può indicarci se altera le proprietà gratificanti, stimolanti e motivazionali dell’alcol, il consumo di alcol e numerosi altri comportamenti a esso correlati, senza contare le differenze di genere, l’effetto dell’ambiente eccetera».

Cosa ci insegnano i ratti alcol-preferenti

Per esempio, spiega Colombo, i ratti sono addestrati a premere una leva per ottenere la soluzione alcolica. I ratti delle linee alcol-preferenti continuano a premere la leva anche quando a quest’atto è associata una leggera scossa elettrica. Ancora, i ratti alcol-preferenti continuano ad assumere l’alcol anche quando alla soluzione è aggiunto del chinino, una sostanza amarissima. Questi animali mostrano anche i comportamenti di ricaduta che, purtroppo, sono spesso associati ai disturbi da uso di sostanze, ricominciando ad assumere la soluzione alcolica non appena ne hanno la possibilità.

«È importante precisare che l’alcol che questo ratti hanno a disposizione è una soluzione alcolica, a concentrazioni variabili tra il 10% e il 20%. Questo ci permette di escludere altri elementi che potrebbero entrare in gioco nell’assunzione, come le proprietà organolettiche piacevoli o il contenuto di zuccheri di un alcolico dolce. In altre parole, i ratti la bevono non per il gusto o per il contenuto energetico ma proprio per i suoi effetti sul sistema nervoso centrale», spiega Colombo. «Tutti questi comportamenti mimano con buona fedeltà e validità la patologia umana, e sono soprattutto manipolabili con gli stessi farmaci efficaci nel paziente affetto da disturbo da uso di alcol. Da qui la validità predittiva di questi modelli».

Anche dal punto di vista farmacologico. Sia chiaro: la terapia farmacologica, anche quando necessaria, è solo una parte del trattamento del disturbo da uso di alcol, che deve necessariamente essere personalizzato e multidisciplinare. I farmaci, in questo contesto, possono comunque rappresentare un aiuto anche sostanziale. «È stato proprio studiando la nostra linea di ratti che abbiamo potuto scoprire gli effetti baclofene, una farmaco che era già stato registrato e approvato per l’uso clinico nel contesto di altre patologie, sul disturbo da uso di alcol. In effetti, gli studi su questo farmaco sono inizialmente stati condotti soprattutto in Italia, per poi allargarsi al contesto internazionale», conclude Colombo – i cui lavori, infatti, appaiono nella bibliografia citata da Ameisen, che sugli effetti avuti per lui dal baclofene scriveva anche: «Non sono più depresso per l’avere un’incurabile, stigmatizzante malattia».

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