Per la nostra rubrica La parola a, intervistiamo Esi Domi, farmacologa nel gruppo del professor Roberto Ciccocioppo presso la Scuola del Farmaco ed il Center for Neuroscience dell’Università di Camerino, che da anni studia i meccanismi e le possibili terapie per le dipendenze e i disordini correlati

Abbiamo da poco parlato del successo del primo xenotrapianto (il trapianto di un organo da una specie diversa dalla nostra) di rene eseguito su un paziente vivo. Si tratta di un intervento che potrebbe salvare le migliaia di persone in attesa di un trapianto ma sul quale la ricerca italiana rischia di subire presto un completo arresto, a causa del divieto di usare animali per la sperimentazione in questo campo.

Come abbiamo spiegato in diverse occasioni, infatti, il nostro Paese ha recepito la Direttiva europea che tutela il benessere degli animali usati a fini scientifici introducendo due ulteriori divieti – divieti la cui applicazione è attualmente prorogata a luglio 2025, ma che, una volta applicati, renderebbero la ricerca impossibile. Il primo è appunto il divieto di usare animali per la ricerca sugli xenotrapianti d’organo; il secondo divieto riguarda l’uso degli animali per gli studi sulle sostanze d’abuso.

Dopo aver approfondito le ragioni che spingono la ricerca nel campo degli xenotrapianti, allora, iniziamo a parlare di quella sulle sostanze d’abuso. È bene partire da una considerazione: tra le sostanze d’abuso non vi sono solo le sostanze stupefacenti usate a scopo ricreativo ma anche molti farmaci impiegati per esempio per la terapia del dolore.

Perché gli animali sono così importanti in questo tipo di studi? Fino a che punto possono aiutare, per ora, i modelli alternativi? E cosa succederebbe, nei fatti, con l’applicazione del divieto? Per la nostra rubrica La parola a, ne parliamo con Esi Domi, ricercatrice del Center for Neuroscience – Scuola di Scienze del Farmaco e dei prodotti della salute, dell’Università di Camerino.

Ci può raccontare un po’ delle sue ricerche? Quali sono i principali obiettivi degli studi del centro?

Ci occupiamo di neuroscienze. Il mio campo di ricerca, in particolare, è quello delle dipendenze: studiamo i meccanismi neurobiologici che ne sono alla base e alcuni disturbi psichiatrici spesso correlati, quali ansia, depressione e dolore neuropatico. Il mio lavoro è dedicato da una parte allo studio di farmaci e, dall’altra, a indagare le basi biologiche che codificano i fattori individuali di rischio e di prevenzione.
Si tratta di temi complessi che ci portano a studiare genetica, epigenetica e fattori ambientali legati alle dipendenze, alle quali, infatti, non tutta la popolazione è vulnerabile nello stesso modo. Per esempio, in un lavoro recentemente pubblicato su Science Advances abbiamo evidenziato come, in linea con dati epidemiologici umani, l’assunzione di alcol rimanga controllata nella maggioranza dei consumatori ma diventi compulsiva, cioè continua nonostante le conseguenze negative, in una significativa minoranza. Gli animali compulsivi dimostravano una disregolazione dell’attività dell’amigdala centrale, una regione importante del sistema limbico che controlla le emozioni.

Oltre alle vulnerabilità individuali, negli ultimi anni è diventato evidente che, anche in questo come in altri campi biomedici, le differenze di genere hanno un ruolo importante: parte del nostro lavoro, quindi, si sta concentrando anche nel capire quali meccanismi e dinamiche si differenziano nei due sessi. Per esempio, abbiamo scoperto che i fattori predittivi per i comportamenti compulsivi sono diversi tra maschi e femmine: per i primi, è la ricerca di gratificazione a promuovere l’uso compulsivo delle sostanze, mentre per le seconde sembrano prevalere il ruolo dello lo stress e il dolore.

Ecco, questo inizia a chiamare in causa la sperimentazione animale come una necessità nella ricerca biomedica. Da quello che dice, cioè, è chiaro che servono organismi che permettono di studiare l’eterogeneità individuale includendo maschi e femmine per studiare comportamenti e meccanismi complessi. Per quali altre ragioni è importante il modello animale?

In generale, gli studi sulle dipendenze sono in gran parte studi sul comportamento, che non è replicabile in sistemi diversi da quelli degli organismi viventi. E questa è una delle ragioni per le quali è così importante, e al momento del tutto insostituibile, il modello animale: ci permette non solo di avere un modello della complessità dell’organismo umano e dell’effetto dell’ambiente su di esso, ma anche dell’individualità che caratterizza gli organismi viventi, che modelli standardizzati come quelli in silico e in vitro non possono replicare. Standardizzare, infatti, oscura fattori di rischio e protezione per disturbi complessi e importanti. Ancora, gli animali ci consentono di indagare molti meccanismi sociali legati allo sviluppo di dipendenze, e a come cambia la vulnerabilità nei diversi momenti della vita.

Che specie di animali si usano in questo campo di studio? E, soprattutto, come si rende un animale dipendente da una sostanza come l’alcol?

Le specie più largamente utilizzate sono i topi e ratti, scelti per le importanti somiglianze comportamentali che condividono con la nostra specie. La scelta tra topo e ratto dipende molto dal tipo di studio: per esempio, l’ingegneria genetica è più avanzata sui topi, che quindi si preferiscono quando lo studio ha bisogno di animali geneticamente modificati; invece, i ratti sono preferiti per modelli comportamentali complessi.

Per quanto riguarda lo sviluppo della dipendenza da alcol, nel nostro laboratorio viene mantenuta da generazioni una linea di ratti selezionati per la preferenza per l’alcol (alcol-preferenti). Sono animali che rispecchiano diverse caratteristiche di quello che è il fenotipo della persona dipendente: per esempio, un ratto alcol-preferente è più sensibile allo stress, mostra un fenotipo ansioso e presenta sintomi di tipo depressivo, che si alleviano dopo aver bevuto l’alcol. Per mimare la condizione umana, modelli recenti di dipendenza si basano sulla libera scelta dell’animale tra diverse alternative, come una sostanza zuccherina, l’interazione sociale o la sostanza d’abuso.

Più di recente, nel nostro laboratorio è stata introdotta anche una nuova linea di ratti geneticamente eterogenea, che deriva da incroci di 8 linee diverse e quindi ha una genetica a mosaico, per cui rappresenta il modello di eterogeneità più adatto per studiare le basi genetiche e la variabilità individuale di un disturbo psichiatrico.

Cosa succederebbe se venisse applicato il divieto di usare gli animali per questi studi? Perché, nella realtà che descrive, sembrano proprio imprescindibili.

Come dicevamo prima, è impossibile replicare questi comportamenti complessi al di fuori di un organismo vivente. Certo, i modelli alternativi sono per noi importanti, ma ci consentono solo i primi screening e la classificazione farmacologica di molecole che possono aiutare nel trattamento della dipendenza. Non ci invece danno informazioni sull’efficacia terapeutica di queste molecole e sui meccanismi della dipendenza stessa.

Per il mio campo di studi, l’applicazione del divieto significherebbe fermare la ricerca, che però si arresterebbe solamente in Italia. Potrebbe continuare altrove, e questo può implicare anche una minor protezione per gli animali stessi, dal momento che non tutti i paesi del mondo garantiscono standard di tutela elevati quanto quelli europei per la protezione degli animali usati a fini di ricerca. Vale anche la pena considerare che le dipendenze hanno un importante impatto non solo per i singoli individui – e dobbiamo ricordare che si tratta di disordini mentali a tutti gli effetti, non semplici “vizi” – ma anche a livello sociale ed economico; non a caso, durante il periodo che ho trascorso in Svezia come post-doc ho potuto osservare la grande attenzione che si dà allo studio e al contrasto dell’alcolismo, un problema ancora diffuso nel Paese, proprio perché si sa che comporta costi sociali ed economici importanti (si pensi per esempio ai casi di tumore correlati all’alcol, agli incidenti stradali, o alle violenze in famiglia). Tanto più che molte dipendenze sembrano essere in aumento.

Un altro elemento da tenere in considerazione è che, in virtù delle norme dettate dagli organismi regolatori del farmaco (FDA negli Stati Uniti ed EMA in Europa), è vietato sviluppare farmaci che raggiungono il cervello in assenza di studi che valutino il loro potenziale d’abuso. Per obblighi normativi, questi studi richiedono l’utilizzo di modelli animali come quelli di cui abbiamo parlato. Se, quindi, venisse meno la possibilità di testare le nuove molecole in sviluppo sui modelli di abuso, rinunceremmo alla possibilità di avere nuovi farmaci la cui azione o effetti si esplicano sul sistema nervoso centrale. Insomma, di fatto non si fermerebbe solo lo studio delle dipendenze, ma anche lo sviluppo di cure per altre condizioni psichiatriche come ansia e depressione, che sono in aumento, e di condizioni neurologiche, come per esempio il morbo di Alzheimer e di Parkinson. Praticamente tutti i farmaci neurologici e psichiatrici, ma non solo. Farmaci , per inciso, che in alcuni casi sono utilizzati non solo dal’essere umano ma anche in veterinaria, per la cura dei nostri animali.

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