L’anoressia nervosa è uno dei più comuni disturbi alimentari, patologie complesse, difficili da diagnosticare precocemente e con un alto rischio di recidiva. Gli animali, pur non potendo replicare fattori cognitivi e socioculturali, permettono di studiare i meccanismi neurobiologici alla base di questi disturbi, individuare fattori di vulnerabilità e testare nuove strategie terapeutiche

Anoressia, bulimia, binge eating disorder: sono i più noti e comuni tra i disturbi alimentari, malattie tanto complesse quanto pericolose, seppur in modo tra loro differente. Sono anche patologie subdole, sia perché chi ne soffre tende a nasconderle e negarle, sia perché presentano un alto rischio di diventare croniche e recidivare nel corso della la vita.

Molta ricerca scientifica si è dedicata alla valutazione delle cause di queste patologie. Tra i fattori di rischio riconosciuti ve ne sono di ambientali, tra i quali non ultima l’esposizione a ideali di bellezza legati alla magrezza, un elemento che, come si può facilmente immaginare, può essere amplificato dai media.

Come possono, allora, aiutarci le ricerche sugli animali nello studio di queste patologie? Certo non possiamo immaginare un topo o un ratto che sfoglia il suo feed di Instagram paragonandosi a modelle e modelli in biancheria intima che raccontano della propria dieta. Ma nei disturbi del comportamento alimentare sono diversi i fattori che entrano in gioco, e la ricerca sull’animale può aiutarci a chiarirli, così da capire meglio i meccanismi biologici (compresi quelli neuroendocrini) di queste patologie, testare possibili terapie e isolare quelle variabili difficili da individuare nell’essere umano.

Ne abbiamo parlato con Paola Fadda, prorettrice all’Università degli Studi di Cagliari, dove è anche professoressa di Farmacologia, che da sempre si occupa di ricerca di base sulla neurobiologia delle patologie psichiatriche.

La ricerca che inizia prima della diagnosi

«I disturbi del comportamento alimentare sono stati riconosciuti come patologie psichiatriche relativamente poco tempo fa: sono stati inseriti nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), il principale riferimento in materia di disturbi mentali, solo nella V edizione (2013), dopo 14 anni di revisione dell’edizione precedente. Nel tempo, come sempre avviene, classificazione e criteri diagnostici sono stati sottoposti a varie revisioni; al di là di questo, ci sono alcuni aspetti di queste patologie che sono diventati via via più chiari negli anni – mentre molti altri continuano a sfuggire», spiega Fadda.

Sappiamo, per esempio, che i disturbi del comportamento alimentare tendono a comparire durante l’adolescenza (sebbene si sia osservato un abbassamento dell’età di esordio, infatti sempre più spesso insorgono già durante la preadolescenza o perfino durante l’infanzia). E sappiamo anche che diversi fattori contribuiscono a rendere la diagnosi possibile solo nelle fasi più avanzate e croniche: la tendenza a negarli o mascherarli da parte di chi ne soffre, per esempio, ma anche la frequente confusione di familiari e amici che tendono a scambiare i sintomi fisici e mentali per “mode salutistiche”, o magari a non collegare un aumento di peso ad abbuffate compulsive.

«Questo aspetto è uno di quelli che rende gli animali preziosi nello studio dei disturbi alimentari: laddove nella clinica si osserva solo la malattia già manifesta, il modello animale ci consente di studiarla nelle fasi iniziali», continua Fadda. «Le specie più usate sono topi e ratti, che hanno un sistema nervoso e neuroendocrino ben conosciuto e simile a quello umano nei meccanismi di base che regolano fame, sazietà e ricompensa. In nessuna delle due specie esiste un disturbo alimentare spontaneo uguale a quello che si osserva negli umani, ma se ne possono modellare alcuni aspetti chiave, in particolare per quanto riguarda l’anoressia e il binge eating disorder. Mancano, invece, veri e propri modelli animali per la bulimia nervosa».

Il modello ABA per l’anoressia nervosa

Concentriamoci sugli animali che modellano l’anoressia nervosa. Può essere estremamente difficile immaginare un topo o un ratto che si priva volontariamente del cibo – forse perfino più difficile che immaginarlo a sviluppare un disturbo da uso di alcol. Tendiamo a pensare che nello sviluppo di questa malattia abbiano un ruolo centrale l’immagine corporea di sé e la pressione sociale, anche estetica, due elementi che non possiamo traslare su queste specie. Ma, lo abbiamo anticipato sopra, se dell’eziologia dei disturbi alimentari sappiamo poco, è chiaro che è complessa e che vi partecipano anche altri fattori oltre a quelli cognitivi e culturali.

Tra questi, i fattori genetici: dagli studi sulla nostra specie sappiamo infatti che avere un familiare con disturbi alimentari (o anche disturbi d’ansia o dell’umore) rappresenta un fattore di rischio, e alcuni geni sono stati associati allo sviluppo dell’anoressia nervosa. Alcuni studi scientifici si sono quindi basati sull’utilizzo di topi geneticamente modificati, con l’alterazione di geni associati all’anoressia nella nostra specie. «Ma il modello più accreditato, detto ABA (Activity-Based Anorexia), si basa sulla combinazione di restrizione alimentare ed esercizio fisico, i due elementi più tipicamente presenti nei nelle persone anoressiche », spiega Fadda. «Si tratta di animali, per lo più ratti, che hanno una ruota per correre a disposizione e un accesso limitato al cibo nelle 24 ore: non significa che non sia mai accessibile , ma che viene reso disponibile solo per un periodo limitato di tempo, di solito 1 o 2 ore al giorno. Inizialmente si lascia passare qualche tempo, in modo che gli animali possano prendere confidenza con l’ambiente, quindi si selezionano, in base a criteri specifici, quelli che mostrano caratteristiche di vulnerabilità, cioè che aumentano in modo drastico l’attività fisica e riducono l’alimentazione. Questi animali potrebbero quindi mangiare a sufficienza durante la finestra di accesso al cibo, ma non lo fanno perché preferiscono l’attività fisica, che aumenta in modo marcato soprattutto nelle ore in cui il cibo non è disponibile. Da cui la consistente perdita di peso».

Il modello ABA è particolarmente importante proprio perché permette di replicare la variabilità che si osserva negli umani: in alcuni ratti, l’istinto a ripristinare le scorte energetiche è più forte di quello a correre, per cui mangiano in abbondanza quando il cibo è disponibile. In quelli vulnerabili, invece, il rinforzo positivo dato dall’attività fisica e il rinforzo negativo legato all’ansia da digiuno sembrano prevalere sulla fame, portando a mangiare meno anche se avrebbero tempo e possibilità.

In altre parole: l’attività fisica favorisce il comportamento iperattivo e restrittivo, tanto che alcuni studi hanno mostrato come bloccare i recettori della dopamina in questi animali permetta di ridurre l’iperattività, la perdita di peso e l’ipoalimentazione, mentre altri hanno evidenziato come topi geneticamente modificati per produrre più dopamina risultino più vulnerabili al comportamento ABA. E, dall’altro lato, la restrizione alimentare induce uno stress che viene alleviato, proprio in virtù di questo meccanismo, dall’attività fisica: diventa un comportamento per ridurre la tensione, che viene dunque rinforzato, in un ciclo auto-perpetuante.

Oltre al comportamento, vi sono vari aspetti biologici che si riscontrano tanto negli umani quanto negli animali ABA: oltre ai circuiti neuroendocrini legati alla dopamina vi sono, per esempio, le alterazioni ormonali di leptina e grelina (due ormoni legati alla regolazione dell’appetito) e del cortisolo, associato allo stress.

Perché servono sia i modelli animali che la clinica

Questi modelli comportamentali nell’animale di laboratorio hanno permesso di individuare alcuni fattori che influenzano la vulnerabilità all’anoressia nervosa, tra cui per esempio l’età e il sesso, in coerenza con quanto osservato negli umani. Per quanto riguarda il sesso, in effetti, vale la pena fare un’altra osservazione: «Gran parte degli studi si basa su femmine, perché storicamente sono più a rischio di disturbi del comportamento alimentare e, inoltre, nei ratti e nei topi le femmine che vivono insieme sincronizzano i cicli estrali, permettendoci così di tenere facilmente in considerazione i cicli ormonali. Tuttavia, i disturbi del comportamento alimentare possono presentarsi anche negli uomini: per questa ragione gli studi hanno iniziato a basarsi anche su animali maschi, che ci consentono anche di tenere in considerazione le differenze di genere», spiega infatti Fadda.

È per tutte queste ragioni che ratti e topi ABA hanno un ruolo di primo piano nello studio dell’anoressia nervosa, così come altri modelli supportano quello del binge eating disorder. Ma è anche inevitabile che vi siano differenze significative, a partire dalla difficoltà di rappresentare le motivazioni psicologiche complesse, i fattori socioculturali, la distorsione dell’immagine corporea. «Un altro aspetto di cui è fondamentale tenere conto quando si lavora con questi animali è la mancanza di cronicizzazione della patologia, anche se alcuni studi cercano di mimarne le caratteristiche», spiega la ricercatrice. Le ragioni sono diverse: biologiche ed etologiche (perché in topi e ratti il comportamento restrittivo è indotto dalle condizioni sperimentali e scompare se l’animale viene riportato ad alimentazione libera), non meno che etiche e normative (ricordiamo che la normativa per il benessere degli animali da laboratorio vieta di mantenere animali in condizioni di sofferenza grave e prolungata senza analgesia o intervento, per cui quando il calo di peso supera una soglia critica il protocollo deve essere interrotto o si deve procedere all’eutanasia).

È chiaro comunque che, sebbene in modo parziale, l’uso degli animali può mostrarci come, anche in assenza di pressioni sociali o distorsioni dell’immagine corporea, esistano meccanismi neurobiologici in grado di spingere un organismo verso una restrizione alimentare pericolosa e a un esercizio fisico fuori controllo. È un’osservazione che ha contribuito a mostrare l’anoressia nervosa non come a una malattia esclusivamente influenzata dalla cultura, ma anche come a un disturbo radicato in circuiti di ricompensa, ormoni e risposte allo stress. Naturalmente, non meno importanti sono gli studi che questi animali consentono di fare per la ricerca di terapie (vale la pena ricordare che oggi il trattamento per i disturbi alimentari è multidisciplinare, ma non abbiamo farmaci per i disturbi del comportamento alimentare bensì solo per gli altri disturbi mentali, che spesso rappresentano un’importante comorbidità). Insomma, come spesso avviene – soprattutto nel caso delle patologie più complesse – i modelli animali non sostituiscono l’osservazione clinica e lo studio sull’essere umano, ma ne sono un complemento indispensabile.

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