Sperimentazione animale

La genetica non è un’opinione

Di 26 Febbraio 2016 Febbraio 27th, 2023 Nessun commento

Ho letto quanto ha recentemente scritto la dott.ssa Susanna Penco nella sua lettera sul “sofferto tema della vivisezione e dei metodi alternativi sostitutivi” e sono rimasta colpita da quante inesattezze ha riportato in quelle poche righe, a partire dal titolo dell’argomento affrontato. Nella sua lettera ci sono delle affermazioni così contraddittorie che faccio fatica ad attribuirle a una biologa, ricercatrice e universitaria e a capire bene il suo messaggio: la genetica e le conoscenze scientifiche vengono girate e rigirate a seconda del momento.

Prima di tutto, la dottoressa Penco parla della ricerca scientifica come se fosse solo sperimentazione animale. Questa è la prima scorrettezza nei confronti del lettore. Io sono una biologa che si occupa di genetica (cardiovascolare nello specifico) e lo fa nell’uomo. Nonostante personalmente non faccia esperimenti su animali nel mio lavoro, non posso che prendere le distanze da affermazioni secondo cui la sperimentazione animale è inutile e crudele. Anzi, direi che da ricercatrice non posso che pensare che lo studio di una malattia sia un processo molto complesso che comprende diversi aspetti, tra cui la sperimentazione animale. Vorrei ricordare, anche alla dottoressa Penco, che la scelta di lavorare sugli animali o la scelta di utilizzare una specie piuttosto che un’altra non è casuale, ma espressamente dettata dalla patologia in esame e dai modelli a disposizione, e non credo che nessuno faccia questa scelta volentieri. E nessuno si sognerebbe mai di dire, a lei o a chiunque altro, di riconoscersi in topi o scimmie. Come tutti coloro che lavorano in questo campo riconosco una certa differenza tra uomo, maiale e topo ed è innegabile, però, che ci sia un’alta similarità tra le sequenze di DNA umano e di topo, ad esempio, o tra il cuore di un uomo e quello di un maiale. Ma non lo “credo” perché mi è stato insegnato così, lo so perché ormai il DNA è stato sequenziato, letto, e allineato nucleotide per nucleotide, pezzo per pezzo. Se la dottoressa nega questo, non capisco perché si avvalga della genetica e in particolare dell’epigenetica per avvalorare il suo pensiero “anti-ricerca”. Non voglio soffermarmi molto sulla sua interpretazione: l’ambiente addomestica il DNA. Ormai è noto da studi scientifici (ancora loro) che per alcune patologie esista un’interazione tra l’ambiente e i geni e che questo si traduca in una diversa manifestazione della malattia o di alcuni aspetti di essa, ma mi sembra un po’ eccessivo (e ancora una volta scorretto) affermare che “l’ambiente sappia rendere diverso il DNA a seconda degli stimoli ricevuti”. Se si parla così a pazienti e cittadini, si corre il rischio di far passare un messaggio sbagliato. Sicuramente la dottoressa lo avrà fatto per farsi capire meglio, ma a questo punto non siamo noi ricercatori a ritenere i “malati così stupidi”.

Mi domando, inoltre, come si possa anche solo immaginare che un unico corpo, seppur importante come il suo (una volta privo di vita per giunta), possa essere più attendibile o utile per la ricerca di molti studi su animali o sull’uomo, ma soprattutto su organismi complessi in vita. Sono anche curiosa di sapere a chi donerebbe il suo corpo: agli stessi ricercatori che “si affannano a curare topi e scimmie”, quelli che a suo dire “pensano ai loro stabulari, al loro tornaconto e all’«ansia da pubblicazione»”?

Trovo totalmente inappropriate le sue affermazioni sul perché i ricercatori facciano (e soprattutto continuino a fare) questo lavoro. Forse Susanna Penco non sa come va la ricerca in Italia. I soldi pubblici vengono sicuramente scialacquati in mille modi, ma alla ricerca ne arrivano ben pochi. Io sono precaria e il mio più grande affanno quotidiano è quello di trovare fondi per portare avanti i miei studi che spero porteranno ad un miglioramento della diagnosi o delle condizioni delle persone affette da determinate patologie al cuore (nel mio caso la bicuspidia aortica o lo scompenso cardiaco). “L’ansia da pubblicazione”, come la definisce la dottoressa, non è altro che la voglia di rendere noti i risultati delle nostre ricerche, quando validi. Purtroppo noi veniamo giudicati anche dal numero e dalla qualità delle pubblicazioni. Ma penso di poter parlare a nome di molti giovani ricercatori dicendo che una pubblicazione non è il punto di inizio di un progetto, ma si spera un punto di arrivo. Ed è, a oggi, il modo migliore per confutare teorie e ipotesi terapeutiche sbagliate, come nel caso della presunta correlazione tra vaccini e autismo o di miracolose cure del cancro o di altre patologie.

Per quanto sia comprensibile che una paziente di sclerosi multipla, come Susanna Penco, sia “arrabbiata” con la medicina per la mancanza di risposte alla sua malattia, le sue affermazioni sull’inutilità della ricerca e della sperimentazione animale, dimostrate a suo dire dalla scarsità di terapie per le malattie neurodegenerative, sono quantomeno poco obiettive, perché incuranti di tutti i successi ottenuti invece in altri ambiti. Non ultimo il vaccino antiebola sperimentato prima sulle scimmie e poi con successo sull’uomo.

Silvana Pileggi

PhD in Morfobiologia Applicata e Citometabolismo dei Farmaci

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