Dopo anni di rinvii, l’Italia dovrebbe abrogare i divieti sulla sperimentazione animale relativi agli xenotrapianti d’organo e agli studi sulle sostanze d’abuso, introdotti nel 2014 e mai previsti dalla normativa europea. Una scelta che potrebbe riallineare il Paese al quadro UE, evitando l’arresto di interi settori della ricerca biomedica e rimuovendo una discriminazione che avrebbe colpito pazienti con bisogni di cura oggi ancora insoddisfatti

Dopo oltre dieci anni di rinvii e incertezze, i divieti italiani sulla sperimentazione animale relativi agli studi sugli xenotrapianti d’organo e sulle sostanze d’abuso potrebbero essere finalmente abrogati. Si chiuderebbe così una lunga anomalia normativa che, dal 2014, aveva collocato l’Italia in una posizione isolata rispetto al quadro europeo, senza basi scientifiche né etiche.

I divieti erano stati introdotti con il decreto legislativo 26/2014, con cui l’Italia (e la sola Italia) ha recepito la Direttiva 2010/63/UE sulla tutela degli animali utilizzati a fini scientifici. La loro entrata in vigore, più volte rimandata nel corso degli anni, era fissata al 1 gennaio 2026 e avrebbe comportato l’arresto completo di interi ambiti della ricerca biomedica.

L’abrogazione porrebbe fine a una situazione che avrebbe avuto conseguenze rilevanti non solo per il sistema della ricerca, ma anche – e soprattutto – per i pazienti.

Una scelta senza fondamento scientifico

Come abbiamo più volte approfondito sul nostro sito, divieti non trovavano una base scientifica -e nemmeno etica. In nessuno di questi due campi sono disponibili metodi alternativi tali da consentire di interrompere del tutto l’uso di animali (e vale anche al pena ricordare che, proprio in accordo con la Direttiva 2010/63/EU, non è consentito usare animali laddove siano disponibili metodi alternativi validati).

Infatti, nel caso degli xenotrapianti, che nel mondo stanno avanzando velocemente e hanno portato anche ai primi trial clinici, l’impiego di modelli animali è intrinseco alla natura stessa della ricerca. Non esistono metodi alternativi in grado di sostituire un organo funzionante né di riprodurre la complessità biologica necessaria per valutare sicurezza ed efficacia di queste procedure.

Analogamente, i disturbi da uso di sostanze – comunemente e impropriamente definiti “dipendenze” – sono patologie estremamente complesse, nelle quali si intrecciano fattori genetici, epigenetici e ambientali. Come avevamo raccontato qui, nessun modello in vitro è oggi in grado di replicare la complessità del sistema nervoso umano né la sua interazione con il contesto sociale, le esperienze di vita, le differenze tra i sessi e le variabili ambientali.

Non solo dipendenze: l’impatto sui farmaci

Il divieto relativo alle sostanze d’abuso non riguardava esclusivamente lo studio delle dipendenze. La normativa prevedeva infatti che ogni farmaco in grado di attraversare la barriera ematoencefalica fosse testato per il suo potenziale d’abuso. Questo avrebbe bloccato anche la ricerca su numerosi trattamenti essenziali: analgesici potenti utilizzati in oncologia, farmaci per malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer, terapie per la depressione e i disturbi d’ansia. Peraltro, avrebbero ostacolato strategie nazionali come il Piano contro l’abuso di Fentanyl, che prevede studi preclinici sugli oppioidi sintetici.

La permanenza dei divieti avrebbe quindi avuto un impatto diretto e trasversale su ampi settori della ricerca farmacologica e sulle prospettive terapeutiche di milioni di persone.

Un problema etico, prima ancora che scientifico

Ne abbiamo parlato spesso: i divieti non erano solo privi di giustificazione scientifica, ma anche eticamente inaccettabili. Infatti, consentire la sperimentazione animale in tutti gli altri ambiti della ricerca biomedica, escludendo proprio quelli che riguardano chi necessita di un trapianto d’organo o chi soffre di disturbi da uso di sostanze, significava creare una distinzione implicita tra pazienti “di serie A” e “di serie B”.

A questo si aggiungeva un ulteriore effetto discriminatorio: la possibilità di continuare la ricerca all’estero. Una soluzione solo apparente, che avrebbe inciso sulla qualità e sul controllo dei risultati, sui costi delle terapie e sull’accesso alle cure, costringendo alcuni pazienti a spostarsi fuori dal Paese, quando possibile.

Delegare ad altri Paesi una ricerca considerata eticamente impegnativa, beneficiando poi dei risultati ottenuti, sollevava inoltre una questione di responsabilità. Se un sistema scientifico ha le competenze per affrontare determinati problemi di salute, rinunciare a farlo non è una posizione eticamente neutra.

Una svolta attesa da anni

«L’abrogazione dei divieti rappresenterebbe un passaggio fondamentale per riallineare l’Italia alla normativa europea, restituire coerenza al sistema della ricerca e garantire pari dignità a tutte le aree della medicina e a tutti i pazienti», commenta Giuliano Grignaschi, responsabile del benessere animale dell’Università di Milano e portavoce di Research4Life. «Sarebbe una decisione che riconosce la complessità scientifica ed etica della ricerca biomedica e riafferma il principio secondo cui la tutela degli animali e il progresso medico devono essere affrontati con rigore, responsabilità e basandosi sulle evidenze, non su scelte ideologiche».

All’interno di questo quadro, il dibattito pubblico e scientifico resta essenziale. Così come rimane essenziale sia incentrato sulla trasparenza – per la quale lavoriamo, come Research4Life, per garantire informazioni corrette sul tema della sperimentazione animale, che inevitabilmente pone importanti questioni etiche. «Proprio in quest’ottica abbiamo proposto e sostenuto il Concordato per la Trasparenza pubblicato quest’anno dal Ministero della Salute», specifica Grignaschi. «Ora, comunque, il confronto pubblico potrebbe ripartire su basi più solide, senza divieti che avrebbero compromesso il futuro della ricerca e il diritto alla cura».

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