Sviluppare un test del sangue per la diagnosi dell’Alzheimer: questo l’obiettivo della ricerca a cui sta lavorando il ricercatore italiano Nicola Orefice, Research Associate al Waisman Center della University of Wisconsin.
Dopo l’esperienza francese all’Institut national de la santé et de la recherche medicale (Inserm), Orefice è attualmente negli Stati Uniti per condurre una ricerca che ha lo scopo di individuare e indagare l’Alzheimer prima che si manifesti, aprendo così la strada a nuovi possibili sistemi di diagnosi della patologia e a nuovi farmaci.
Noi di Research4Life lo abbiamo intervistato per scoprire di più su questo interessante progetto di ricerca, volto a combattere questa grave malattia degenerativa.
Com’è nata e quali sono stati gli sviluppi di questa ricerca sull’Alzheimer?
L’Alzheimer è ancora oggi una malattia incurabile. Gli attuali modelli pre-clinici dell’Alzheimer hanno permesso di studiare soltanto la fase clinica di questa patologia, fase nella quale è impossibile recuperare i propri ricordi, una fase straziante per i pazienti che ne sono affetti e per coloro che li circondano. I farmaci attualmente disponibili servono solo ad alleviare parzialmente alcuni sintomi e la comunità scientifica sta incontrando grandi difficoltà nello sviluppo di terapie efficaci.
Uno degli ostacoli che ci si trova di fronte è l’impossibilità di diagnosticare la malattia prima che raggiunga uno stadio avanzato (fase clinica, ossia quella in cui compaiono i sintomi del morbo), sebbene le caratteristiche biologiche dell’Alzheimer compaiano almeno vent’anni prima dell’inizio dei sintomi (perdita di memoria, deficit cognitivi delle funzioni del linguaggio, dei movimenti finalizzati e del riconoscimento di oggetti e persone). Per poter intervenire sui pazienti in maniera tempestiva, ovvero quando gli effetti cerebrali sono ancora reversibili, è necessario comprendere in maniera analitica e circostanziata questa fase silente. Fino ad ora, tuttavia, non esistevano modelli (in vitro o animali) che permettessero di studiare questo lungo periodo che precede l’apparizione dei sintomi cognitivi.
Inoltre il morbo di Alzheimer, a uno stadio avanzato, è caratterizzato da due tipi di degenerazione del cervello: l’aggregazione delle proteine Tau nei neuroni e l’apparizione di placche di peptide Ap42 all’esterno dei neuroni. Gli attuali modelli animali esprimono solo l’una o l’altra di queste due forme di degenerazione.
“Ognuno di noi ha il diritto di ricordare”. Con questo obiettivo, nel 2013, gruppi di ricercatori europei sono arrivati a sviluppare modelli di roditori che presentavano fasi molto precoci della malattia e due tipi di degenerazione. I risultati di questa ricerca, che hanno visto per la prima volta in un modello animale caratteristiche di malattia paragonabili a quelle dei pazienti umani, sono stati pubblicati sulla rivista “Cerebral Cortex”.
Quindi si utilizza il modello animale per combattere la malattia prima che si manifesti?
Il nostro modello è denominato “AAV-AD”, ossia modello di Alzheimer utilizzante vettori virali (AAV). Grazie ai vettori virali, è stato possibile iniettare direttamente nell’ippocampo, la regione cerebrale più colpita nell’Alzheimer, il gene della presenilina 1 (PS1), che regola le funzioni dell’enzima γ-secretasi, e la proteina precursore dell’amiloide (APP) mutante umana.
L’enzima γ-secretasi è uno degli enzimi responsabili della degradazione della proteina precursore dell’amiloide. Insieme all’enzima β-secretasi, infatti, esso provoca la scissione della proteina di membrana APP, reazione che porta alla liberazione dalla cellula del peptide β-amiloide, il quale ammassandosi con altre sostanze forma placche nel sistema nervoso centrale.
Contrariamente ai modelli transgenici attualmente utilizzati, il modello AAV-AD consente un’osservazione longitudinale (oppure consente un’osservazione duratura nel tempo), dello sviluppo della fase silente. Tale modello è stato infatti studiato per oltre 30 mesi.
Quali sono dunque i primi risultati e le prospettive della lotta alla malattia?
I nostri risultati hanno accertato che l’aumento di espressione della proteina precursore della beta amiloide (βAPP) induce una fase silente (o fase prodromica), cioè prima della deposizione della placca amiloide e della formazione di grovigli, che può durare diversi anni senza che si manifesti alcun sintomo clinico premonitore. Da questa fase scatta la fase clinica, ormai ben nota ai ricercatori, caratterizzata dalla formazione e deposizione delle placche di beta amiloide.
I ricercatori, riuniti nella piattaforma AgenT creata dal dottor Jerome Braudeau, ora intendono utilizzare questo modello di ricerca con tre obiettivi:
- testare i potenziali farmaci per determinarne l’efficacia e gli effetti sui due tipi di degenerazione;
- studiare la fase iniziale della malattia, durante la quale il suo sviluppo potrebbe essere invertito;
- ricercare fattori predittivi del primo stadio della malattia, rendendo possibile la sua diagnosi in pazienti a partire da 45 o 50 anni.
Il video: