Una prima occhiata ad alcuni dei dati che emergono dal report europeo sulle statistiche degli animali impiegati a scopi scientifici nell’Unione Europea

Per parlare di sperimentazione animale, le statistiche e i dati sul loro impiego sono tra i primi elementi da avere a disposizione. Solo così, infatti, è possibile capire se la ricerca si sta efficacemente orientando sul principio delle “tre R”, adottato dall’Unione Europea con la direttiva 2010/63/EU, dedicata alla tutela degli animali impiegati per scopi scientifici. Si tratta di una sigla che sta per “rimpiazzo” (replacement), cioè impiegare metodi di ricerca e analisi che non richiedano il coinvolgimento degli animali; “riduzione” (reduction), ossia limitare gli individui impiegati (per esempio, massimizzando le informazioni che possono essere ottenute da un singolo individuo, anche eseguendo i test più volte se ciò non ne compromette il benessere) e, infine, “rifinitura” (refinement), che indica ogni pratica volta a ridurre stress e sofferenze all’animale.

Le informazioni sulle cifre degli animali impiegati in ricerca, le specie più coinvolte, la loro origine e molte altre indicazioni vengono pubblicate dall’Unione Europea che, in accordo con la direttiva 2010/63/EU, raccoglie le informazioni provenienti dagli Stati membri. Il primo report, pubblicato a inizio 2020, raccoglieva le informazioni provenienti dai 28 stati membri per gli anni 2015 (primo anno di implementazione della direttiva in tutti gli stati membri), 2016 e 2017; più di recente, a luglio di quest’anno, è stato pubblicato invece il report per il 2018, che comprende anche i dati per la Norvegia e permette un confronto più raffinato sulla sperimentazione animale rispetto agli anni precedenti. Ne iniziamo a raccogliere qui alcuni degli elementi più significativi.

Quanti animali? Qualche numero

Il totale degli animali impiegati per la prima volta a scopi scientifici nel 2018 risulta essere 10.572.305. Ma questa cifra tiene conto anche dei dati norvegesi, che sono stati inclusi nel report solo per la prima volta anche se la Norvegia non fa parte della UE: la prima e forse tra le più importanti informazioni che emerge dal report è che, se negli anni precedenti il numero di animali impiegati in ricerca si era sempre mantenuto oltre i 9 milioni, escludendo i dati dalla Norvegia, nel 2018 si scende per la prima volta al di sotto di questa cifra, con l’impiego di 8,9 milioni di animali.

Il report valuta invece separatamente gli animali impiegati per la creazione e il mantenimento di linee geneticamente modificate, che sono all’incirca un milione e mezzo.

Di che specie parliamo

Una seconda domanda cui è importante rispondere è poi: quali sono le specie più coinvolte? I dati raccolti indicano che la stragrande maggioranza (il 93% del totale) è rappresentato da topi, ratti, uccelli e pesci. Questi ultimi, in particolare, hanno segnato un notevole aumento rispetto al 2017 (+127%), dovuto all’inclusione dei dati norvegesi, mentre gli altri gruppi di animali hanno tendenzialmente segnato una diminuzione.

Le specie indicate come di particular public concern, sulle quali l’attenzione pubblica tende a essere più sensibile, sono i mammiferi più vicini a noi, vuoi perché spesso presenti nelle case come pet vuoi per prossimità evolutiva: cani, gatti e primati non umani. Insieme, questi solo lo 0,3% del totale; le grandi scimmie sono assenti, dal momento che il loro impiego per fini scientifici è vietato dall’Unione Europea. Per quanto riguarda i cani, il report segnala un aumento del 29% rispetto al 2017, ascrivibile per la maggior parte a indagini per disordini genetici compiute su pet, ossia cani di famiglia.

Le rimanenti specie impiegate sono rappresentate da altri mammiferi (per esempio cavalli, capre e maiali), cefalopodi, rettili e anfibi.

È importante notare che il report non indica i dati riguardanti gli invertebrati, che pure sono ampiamente impiegati nella ricerca scientifica (le specie più note sono il nematode Caernorhabtitis elegans e il moscerino Drosophila melanogaster), in quanto non compresi nella direttiva 2010/63/EU perché, a oggi, non considerati senzienti.

Origine degli animali impiegati in ricerca

Un terzo aspetto analizzato dal report è la provenienza degli animali impiegati nella ricerca. Non è un elemento di poco conto: gli allevamenti registrati in Europa garantiscono il rispetto della direttiva 2010/63/EU (assicurando, per esempio, che gli animali abbiano tutte le cure, l’acqua e il cibo per garantirne il benessere) e sono sottoposti a ispezioni regolari. Tali garanzie possono invece venire a mancare se gli animali sono importanti da altre regioni del mondo.

Il report indica che la stragrande maggioranza (88,5%) degli animali proviene da allevamenti registrati; proporzioni più piccole provengono da Paesi europei non appartenenti alla UE e non europei, e l’8,5% è invece rappresentato per esempio da animali di fattoria oppure selvatici (indicato come “animali nati nell’Unione Europea ma non da allevamenti registrati). Una buona parte di quest’ultimo gruppo è inoltre rappresentata da cani (46%), gatti (38%) e rane (29%): per i primi due, specifica il report, la ragione è che si tratta di pet di casa cui sono stati prelevati campioni di sangue per le indagini su disordini genetici, oppure pet coinvolti in studi per identificare il miglior trattamento di patologie veterinarie.

Una sezione a parte è dedicata ai primati non umani, ai quali la direttiva riconosce una tutela aggiuntiva a causa della stretta vicinanza all’essere umano e alle abilità cognitive e sociali di queste specie.

Le tre principali regioni d’origine dei primati risultano essere gli allevamenti registrati europei e, soprattutto, Africa e Asia. In particolare, a essere importata risulta soprattutto il macaco cinomologo (Macaca fascicularis), nativo dell’Asia Sud-Orientale: gli individui impiegati per la prima volta a fini scientifici provengono infatti prevalentemente da Asia e Africa. Il macaco cinomologo è anche il primate del quale, nel corso del 2018, sono stati usati per la prima volta in ricerca più individui (oltre 7.600)

Gli altri primati (come il macaco rhesus, il babbuino e i piccoli uistitì) provengono invece quasi totalmente da allevamenti europei registrati.

La direttiva 2010/63/EU riconosce anche esplicitamente lo stress e i rischi che possono derivare dalla cattura dall’ambiente naturale. Per quest’ultima ragione, l’Unione Europea cerca di arrivare a stabilire colonie in cattività che si auto-sostengano, così da evitare la cattura di nuovi individui, e il nuovo report analizza anche quanti individui provengano da incroci in cattività (da colonie che si auto-sostengono o da incroci di seconda generazione o più). I dati, riportati nella tabella sottostante, indicano una leggera diminuzione di individui provenienti dalle colonie (-1%); tuttavia, in linea con gli obiettivi della direttiva, risultano anche leggermente aumentate le proporzioni di individui da seconde generazioni (o più).

Questi sono solo alcuni dei dati raccolti nel report. Altri aspetti di grande importanza, che approfondiremo nei prossimi articoli, riguardano per esempio gli scopi per i quali sono stati impiegati, con quali effetti (se gravi o blandi), quanti sono stati impiegati per alterazioni genetiche, o ancora, in linea con il principio delle 3R, quanti animali hanno subito più di un trattamento o procedura. Tuttavia, già da questi primi dati possono nascere alcune osservazioni: «Grazie allo sviluppo della tecnologia, il limitato uso di alcune specie è una realtà ormai da molti anni, arrivando a impiegare alcuni animali solo nelle ultimissime fasi della sperimentazione dove, in molti casi, sono previsti dalle normative vigenti per l'approvazione dei farmaci», commenta Giuliano Grignaschi, direttore di Research 4 Life. «I gatti, in particolare, non sono praticamente più utilizzati da molti anni; cani e primati, invece, rimangono indispensabili in alcuni ambiti».

«È sempre grazie allo sviluppo della tecnologia che da un singolo individuo riusciamo, con tecniche di analisi sempre più sofisticate, a ottenere maggiori informazioni. Pensiamo solo alle tecniche di imaging in vivo, che ci permettono di seguire lo sviluppo della patologia senza dover sacrificare l'animale; oppure allo sviluppo dei modelli computazionali per la valutazione della tossicità, che rappresentano un altro aiuto importante. Non dimentichiamo poi il ruolo degli invertebrati, che non rientrano in queste statistiche ma rappresentano i nuovi organismi modello sempre più utilizzati», conclude Grignaschi.

Crediti immagine di copertina: Understanding Animal Research/Flickr. Licenza: CC BY 2.0

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