Un nuovo studio mostra come gli estrogeni amplifichino la sensibilità intestinale nelle femmine attraverso un circuito cellulare complesso che coinvolge ormoni, microbiota e sistema nervoso. Un esempio concreto di medicina di genere e del ruolo ancora essenziale dei modelli animali

La ricerca medica si è storicamente basata soprattutto su soggetti maschili: il “paziente standard” è un uomo, ed è su di lui che si valutano le dosi dei farmaci, le caratteristiche delle patologie, i loro sintomi, il modo di diagnosticarle. Negli ultimi decenni, la medicina di genere ha iniziato a correggere questo squilibrio, che può avere effetti deleteri per le donne per esempio in termini di ritardi diagnostici, sottodiagnosi o terapie meno efficaci oppure con più effetti collaterali.

Ne è un esempio lo studio appena pubblicato su Science, che approfondisce come gli estrogeni amplifichino la sensibilità intestinale delle femmine, contribuendo ad ampliare le conoscenze sulle differenze di genere in alcune malattie croniche intestinali.

Gli estrogeni e i disturbi da dolore viscerale

Gli studi hanno evidenziato da tempo come i disturbi da dolore viscerale, quale per esempio la sindrome dell’intestino irritabile, interessino più le donne rispetto agli uomini. Un altro elemento noto è che gli estrogeni, tra i principali ormoni femminili, hanno un ruolo importante nell’amplificazione del dolore, le cui fluttuazioni sono infatti legate a condizioni come il ciclo mestruale e la gravidanza. Ma quali sono i meccanismi biologici alla base di questa differenza di genere? In altre parole, in che modo, esattamente, gli estrogeni modulano il dolore viscerale?

Il nuovo studio parte da questa domanda. E da un’ipotesi: che gli estrogeni non agiscano solo a livello del sistema nervoso centrale nella percezione del dolore, ma direttamente nella mucosa intestinale, modulando la comunicazione tra cellule epiteliali e fibre nervose sensoriali che trasmettono il dolore.

Lo studio nei topi

Il gruppo di ricerca si è concentrato su due tipi di cellule intestinali – rare nella popolazione cellulare, formata soprattutto da cellule deputate soprattutto all’assorbimento di nutrienti, acqua ed elettroliti, ma importanti. Si tratta delle cellule enterochromaffini (EC), che producono l’ormone serotonina e attivano le fibre nervose del dolore, e delle cellule L, responsabili della produzione di altri ormoni coinvolti nella regolazione di appetito e digestione. L’obiettivo era capire come gli estrogeni amplifichino la sensibilità intestinale nelle femmine e perché questo avvenga soprattutto nel colon.

Il loro lavoro si è svolto nelle femmine di topo e si è basato su un approccio sperimentale molto ampio che ha combinato diverse tecniche. Tra queste, alcune erano in vivo (per esempio manipolazioni ormonali e genetiche e i test comportamentali di dolore viscerali, mutuati da quelli in uso sull’essere umano), altre ex vivo (come la registrazione dell’attività delle fibre nervose intestinali in risposta a stimoli meccanici), altre in vitro (con l’uso di organoidi intestinali per osservare direttamente la risposta delle cellule EC e L).

La strada del dolore guidata dagli estrogeni

Questo complesso insieme di esperimenti ha mostrato innanzitutto che le femmine hanno una maggiore attività delle fibre nervose intestinali e una risposta più intensa al dolore rispetto ai maschi, strettamente legata alla presenza di estrogeni. Quando la produzione di estrogeni è interrotta (con ovariectomia), l’ipersensibilità diminuisce nettamente e può essere ripristinata con una singola somministrazione di estrogeni. Gli stessi ormoni, se somministrati ai maschi, aumentano la sensibilità intestinale. Ma come?

Dai risultati è emerso come il recettore degli estrogeni non si trovi sulle cellule enterochromaffini, né direttamente sulle fibre nervose. È invece espresso quasi esclusivamente sulle cellule L del colon, soprattutto nella sua parte distale, quella più coinvolta nel dolore viscerale. Quando gli estrogeni si legano al loro recettore su queste cellule, le inducono a rilasciare una forma specifica di peptide YY, il PYY1-36, noto anch’esso per il suo ruolo nella regolazione dell’appetito, ma che in questo contesto agisce sulla sensibilità al dolore intestinale.

Il passaggio non è però diretto, cioè PYY1-36 non agisce sulle fibre nervose. Invece, agisce sulle cellule EC vicine attraverso uno specifico recettore, inducendo una maggiore liberazione di serotonina. La serotonina, a sua volta, attiva le fibre nervose sensoriali del colon, amplificando il segnale doloroso.

Infine, sembra che anche il microbiota, l’insieme di microrganismi che popola fisiologicamente l’intestino, abbia un ruolo in questa complessa via biochimica. Gli estrogeni, infatti, rendono le cellule L più sensibili ai metaboliti prodotti dai batteri intestinali, potenziando il circuito del dolore, soprattutto nelle femmine.

Il ruolo degli animali nella medicina di genere

«Man mano che più Paesi mettono in atto linee guida che richiedono di tenere in considerazione il sesso come variabile biologica nelle procedure sperimentali, il numero di studi che riporta differenze legate al sesso nel dolore va crescendo», commenta un articolo correlato allo studio. E continua: «Lo studio sistematico di queste crescenti evidenze nei modelli animali chiarirà ancora meglio come il sesso modelli i meccanismi legati al dolore e all’analgesia. Comprendere come sesso e genere influenzano le dimensioni biologiche, psicologiche e sociali del dolore sarà essenziale per sviluppare strategie di gestione più efficaci e precise».

Quello della medicina di genere è un ambito che va sempre più consolidandosi, e fondamentale per garantire un diritto alla salute che sia tale – cioè accessibile a tutte le persone, in grado tra le altre cose di assicurare che la medicina sia più efficace e sicura per entrambi i sessi. È anche un ambito che dimostra bene come tutt’oggi, in alcuni casi, gli animali rimangano necessari per la ricerca. Perché se alcune differenze di genere possono, in effetti, essere studiate anche in vitro, su modelli cellulari anche avanzati, non si può dire lo stesso per altre: è il caso delle complesse vie di dialogo biomolecolare descritte dal nuovo studio.

Comprenderle, per una ricerca di qualità in questo e in altri casi, richiede strumenti in grado di cogliere l’interazione tra ormoni, tessuti, sistema nervoso e ambiente, una complessità che ancora oggi non sempre può essere ricostruita senza gli animali.

Lascia un commento