Abbiamo iniziato a dedicare alcuni approfondimenti agli organoidi, mostrando la loro importanza nella ricerca scientifica. Alcuni di essi, e in particolare gli organoidi cerebrali, possono però porre anche dei problemi etici: un argomento che ben si ricollega a quanto abbiamo scritto sulla coscienza degli invertebrati e di cui parliamo qui con Giorgio Vallortigara, neuroscienziato dell’Università di Trento

Proseguiamo la nostra serie di approfondimento dedicati agli organoidi, che rappresentano uno dei più recenti modelli di studio nell’ambito della ricerca. Abbiamo di recente iniziato a spiegare in cosa consistano e mostrato come, tra i campi in cui vengono impiegati, vi sia la ricerca in ambito oncologico, anche nell’ottica della medicina personalizzata.

Come abbiamo raccontato nel precedente articolo, infatti, gli organoidi aprono molte possibilità di studio, sia sui processi fondamentali della biologia dell’organo sia sullo studio di alcune malattie e disturbi e dei loro possibili trattamenti. Tra questi, peraltro, sono comprese le malattie dovute ai patogeni: è possibile, infatti, coltivare gli organoidi insieme a batteri, virus e altri organismi patogeni per la nostra specie per lo studio dell’infezione. Questo approccio è stato impiegato per esempio con protozoi del genere Cryptosporidium, responsabili della criptosporidiosi, un’infezione che causa disturbi gastrointestinali, e anche per SARS-CoV-2, responsabile della pandemia di COVID-19, per il quale gli studi sugli organoidi hanno mostrato la sua capacità d’infettare diversi tessuti.

A oggi sono stati sviluppati i modelli di diversi organi umani, tra cui fegato, intestino, stomaco, reni, pancreas, cuore, tiroide, retina; e ancora, ghiandole mammarie e prostata. Tra i diversi organoidi che possono oggi essere coltivati, un modello in particolare che suscita una certa attenzione non solo per le sue prospettive in ambito biomedico ma anche perché richiama ad alcune considerazioni di natura etica. Si tratta degli organoidi cerebrali, che aprono grandi possibilità allo studio dello sviluppo del sistema nervoso e di alcune patologie ma che, allo stesso tempo, hanno già fatto interrogare gli stessi ricercatori su possibili problemi morali che si potrebbero porre al progredire della tecnologia. In altre parole, se facendosi sempre più vicini all’organo reale acquisissero coscienza? Quanto possiamo spingerci avanti con lo sviluppo degli organoidi cerebrali?

Questo tema è di particolare interesse se si considera che, come abbiamo avuto modo di raccontare, anche cervelli molto piccoli come quelli degli insetti, o perfino piccole reti neuronali artificiali, possono svolgere compiti piuttosto complessi – e che, in generale, è a oggi difficile definire la coscienza e i suoi presupposti sulla base dei dati scientifici.

Gli organoidi cerebrali

Il primo articolo a riportare la creazione di un organoide cerebrale risale al 2013: pubblicato dalla rivista Nature, riporta il lavoro condotto da un gruppo di ricercatori dell’Accademia di Scienze Austriaca il cui scopo era lo studio della microcefalia, una condizione rara che può comportare diversi problemi, come convulsioni e disabilità cognitive. Lo sviluppo degli organoidi cerebrali è proseguito nel corso degli anni, con finalità differenti, dagli studi sullo sviluppo neurologico a quelli di alcune infezioni, malattie neurodegenerative e disordini come quelli dello spettro autistico. Ma, allo stadio attuale, è soprattutto nel primo campo che gli organoidi cerebrali risultano interessanti perché, come spiega il neuroscienziato Giorgio Vallortigara dell’Università di Trento, «consentono di studiare, in condizione d’isolamento dagli input e output esterni, come delle reti nervose semplificate si auto-organizzano. I processi di sviluppo neurologico sono legati sia alla capacità e alle modalità di auto-organizzazione del tessuto, sia alla presenza di stimoli e risposte: avere a disposizione gli organoidi, che appunto risultano isolati dagli stimoli e incapaci di rispondervi, consente quindi uno studio in forma “purificata” per vedere, per esempio, come l’attività elettrica spontanea si modifica nel tempo, come avviene negli embrioni (anche se, in realtà, anche all’interno dell’utero materno questi percepiscono degli stimoli)».

Per quanto riguarda lo stadio di sviluppo attuale, gli organoidi cerebrali sono di solito paragonati al cervello di un feto di poco più di dieci settimane di età, un paragone che si basa sull’attività elettrica registrata in questi mini-cervelli. «Tuttavia, come tutti gli organoidi, anche quelli cerebrali mancano di molti elementi essenziali dell’organo vero: per esempio, non è presente il sistema delle meningi e non vi è evidenza di circuiti minimali, come quello che dal talamo proietta alle regioni corticali», spiega Vallortigara. «Penso, però, che queste limitazioni siano destinate a essere superate». Ed è su questa possibilità che si aprono alcuni interrogativi etici: potranno diventare senzienti?

Il problema (eventuale) dello sviluppo della coscienza

È una domanda che i ricercatori stessi si pongono, richiedendo anche linee guida per questo tipo di ricerche. Come evidenzia un articolo su Nature, per esempio, a giugno 2021 la National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine statunitense ha intrapreso uno studio dedicato proprio a mettere in luce i problemi etici che possono sorgere dall’uso degli organoidi cerebrali, nonché dalle chimere umano-animale. Tuttavia, come avevamo avuto modo di scrivere a proposito di quanto sappiamo sulla coscienza degli invertebrati, manca comunque una definizione univoca e condivisa di cosa sia la coscienza. Qualche riflessione, però, è possibile cominciare a farla.

«Anche se è evidente che gli organoidi cerebrali a oggi disponibili non sono senzienti, perché le loro caratteristiche funzionali e strutturali sono comunque diverse da quelle di un cervello (anche dei più semplici), l’analogia che è stata fatta da chi si occupa dei problemi etici connessi al loro impiego è quella del cervello nella vasca. In pratica, immaginiamo di prendere un cervello e mantenerlo in vita staccato dal corpo, ma con i terminali neuronali collegati a un supercomputer in grado di fornire una simulazione completa degli stati del mondo, quindi per esempio di quanti di luce, la stimolazione tattile eccetera. Il risultato è che avremmo qualcosa che sente, percepisce in maniera indistinguibile da come farebbe un umano senza essere consapevole di essere semplicemente, appunto, un cervello nella vasca, privo di reali interazioni con l’ambiente», spiega Vallortigara. «Questo è un esperimento puramente teorico, ma che coglie un po’ il punto per farci capire perché è poco credibile che gli organoidi cerebrali sviluppino una coscienza. Infatti, ci fa riflettere sul fatto che non basta avere i neuroni ma serve anche un corpo che comunica con quel sistema neuronale: la senzienza è una proprietà organistica e non neuronale, cioè è propria di un corpo che interagisce con il mondo e ne riceve un feedback».

«Il punto con gli organoidi cerebrali è quindi capire se a un certo punto saremo in grado, come in linea di principio sembra possibile, di farli interagire con altri organi», prosegue il ricercatore. In effetti, in questo senso stanno già andando alcune linee di ricerca: per esempio, nell’agosto 2021 è stato messo a punto da ricercatori tedeschi un organoide cerebrale collegato a una struttura simile alla retina umana; in questo modello, l’organoide cerebrale è anche in grado di attivarsi quando la retina è esposta alla luce.

«Se, d’altronde, ricreassimo un sistema organistico vero e proprio, si porrebbero allora gli stessi problemi di studio legati alla complessità dell’organismo vero e proprio… In generale, comunque, la questione diventa delicata nel momento in cui, interagendo nell’ambiente, il corpo di trova a confrontarsi con stimoli che possono essere nocivi, di fronte ai quali deve mettere in atto risposte adeguate. Starebbe a noi, a quel punto, capire da quale momento queste risposte adeguate possono o vogliamo siano accompagnate per esempio da un’esperienza, come quella del dolore. Chiaramente, non è un problema di oggi, con gli organoidi attuali, ma è un problema che potremo doverci porre in futuro», conclude Vallortigara. «Gli studi e i ragionamenti che si stanno facendo a livello internazionale sullo possibile sviluppo di una coscienza degli organoidi cerebrali vengono posti sul principio di precauzione che guida la ricerca: proprio come, pur non potendo dimostrare la coscienza di un moscerino della frutta, mettiamo in atto una serie di procedure per evitargli quelle situazioni che possono essere stressanti o dolorose nell’ambito di un determinato esperimento».

Crediti immagine di copertina: Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 4.0

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