Per la nostra rubrica La parola a, intervistiamo Silvio Garattini, presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, che proprio quest’anno celebra i suoi 60 dalla sua fondazione. Una storia lunga ma soprattutto ricca di risultati significativi, che ha sempre posto tra i suoi valori la formazione e l’attenzione nei confronti degli animali impiegati, a vantaggio loro e dei risultati della ricerca scientifica

Quella dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri è una storia di eccellenze nell’ambito della ricerca scientifica, ma anche una storia di trasparenza, indipendenza e promozione della cultura scientifica. Nato per volontà del gioielliere milanese di cui porta il nome, e che lasciò per disposizioni testamentarie gran parte del suo patrimonio da dedicare alla sua fondazione, l’Istituto celebra proprio quest’anno i 60 anni di attività: ci sembra dunque che non potrebbe esserci momento migliore, nell’ambito della nostra rubrica La parola a, per scambiare qualche parola con Silvio Garattini, primo direttore dell’Istituto (carica coperta per volontà dello stesso Mario Negri e mantenuta fino al 2018) e suo attuale presidente.

Nel corso della sua lunga carriera scientifica, Garattini ha condotto ricerche importanti, pubblicato un gran numero di articoli, coperto cariche prestigiose – sempre ricordando il fine ultimo della ricerca, la cura (intesa nel suo senso più generale di tutela del benessere) dei pazienti. È per loro che, tra le altre cose, si è sempre schierato per la tutela della possibilità d’impiegare i modelli animali; un tipo di studio che, però, richiede formazione e competenze: ci facciamo dunque raccontare l’impegno dell’Istituto Mario Negri in questo senso.

Professor Garattini, l’attenzione dell’Istituto Mario Negri alla formazione di chi lavora con gli animali è evidente sotto diversi aspetti: per esempio, già negli anni ’80 erano previsti dei corsi di formazione che, a livello nazionale, sono diventati obbligatori solo molti anni dopo, nel 2021. In quale ottica ponete la formazione?

Abbiamo sempre pensato che quella della sperimentazione animale sia una tecnica (e una tecnologia) che va imparata. Gli animali devono essere trattati, e poter stare, nel modo meno difforme possibile da come vivrebbero in natura: la ricerca è fatta per rispondere a domande specifiche, che sono alterate se un animale è stressato o sofferente. Di conseguenza, se si trova in queste condizione, tutto ciò che di fatto ci troviamo a studiare sono proprio stress e sofferenza.

È per questa ragione che i primi a prestare attenzione al benessere animale sono, di norma, proprio le persone che vi lavorano; ed ecco anche perché la sperimentazione sugli animali non può assolutamente essere improvvisata ma richiede formazione, anche solo nella manipolazione: ci sono tecniche specifiche da apprendere, così come va acquisita un’adeguata manualità. Ecco perché abbiamo sempre ritenuto fondamentale che chiunque lavori con gli animali abbia una formazione adeguata e tutte le conoscenze disponibili per muoversi all’interno degli stabulari.

Voi siete anche stati tra i primi ad avere un’Animal Care Unit, un servizio che assicura il rispetto delle procedure di chi lavora con gli animali, in aderenza al principio delle 3R, per garantire la qualità della ricerca e il benessere animale, insieme.

Abbiamo sempre curato questo aspetto. Gli stabulari sono sempre stati per noi dei luoghi “sacri”, cioè accessibili solo a determinate persone, da mantenere nelle condizioni migliori possibili, e abbiamo sempre fatto tutto il necessario affinché ci fossero il massimo della pulizia e della cura in generale: per esempio, non dimentichiamoci dell’importanza della standardizzazione del cibo, dei ritmi luce/notte, della temperatura… E anche gli arricchimenti ambientali, per permettere agli animali di avere una esistenza più simile a quella normale. Tutto ciò non c’era fino agli anni ’50-’60, eppure sono aspetti fondamentali sia per garantire un risultato affidabile dei test sia per il benessere psicofisico degli animali ospitati.

A questo proposito, negli ultimi anni sono stati molti gli studi scientifici che hanno indagato proprio il come riconoscere e ridurre lo stress e la sofferenza negli animali. Ma quali erano le conoscenze in questo campo sessant’anni fa?

Erano già abbastanza buone: non dimentichi che abbiamo iniziato a lavorare nel 1963, per cui avevamo alle spalle già molti anni di lavoro sperimentale – ed erano anche gli anni in cui aveva cominciato a diffondersi, in modo graduale il principio delle 3R che guida la ricerca con gli animali, formulato alla fine degli anni ’50. Naturalmente, però, le cose sono migliorate e si sono raffinate con l’andare del tempo e con l’avvento di tecnologie che una volta non erano disponibili.

Può fare qualche esempio di queste tecnologie?

Un buon esempio sono tutte quelle impiegate anche nell’essere umano, da encefalografie ed elettrocardiografie fino alla TAC, alla PET e alla risonanza nucleare magnetica. Tutte queste attrezzature esistono anche per i piccoli animali e l’Istituto Mario Negri le ha impiegate non appena disponibili. Infatti, hanno diversi vantaggi: risultati migliori e più precisi, certo, ma anche un grande risparmio di animali. Pensiamo a un esperimento che deve andare avanti per un anno o più, dedicato a studiare qualcosa che avviene nel cervello: in assenza di tecnologie, sarà necessario sacrificare regolarmente un certo numero di animali e analizzarne il campione istologico; con, per esempio, una risonanza magnetica, è invece possibile seguire i singoli individui nel tempo, senza doverli sacrificare e garantendo, in aggiunta, risultati più coerenti, proprio perché gli individui studiati sono sempre gli stessi.

In alcuni casi, le tecnologie hanno anche permesso di evitare del tutto il ricorso agli animali: un esempio potrebbe essere quello della titolazione delle fiale d’insulina, un tempo eseguita nei conigli, mentre da quando abbiamo avuto a disposizione gli strumenti per isolare la struttura della molecola abbiamo potuto indagarla con soli metodi chimici. Questo ha portato a una riduzione, nel corso del tempo, degli animali impiegati. Al Mario Negri, per esempio, negli anni ’80 erano circa 120.000 tra topi e ratti; oggi siamo intorno ai 15.000, pur avendo molte più persone che lavorano nella struttura al passato. Questo perché possiamo passare da studi in silico e in vitro che ci permettono di ridurre enormemente gli animali necessari. Nella maggior parte dei casi, però, dobbiamo mettere in chiaro che non si tratta di metodi sostitutivi, bensì complementari: sono, cioè, metodi che forniscono indicazioni preziose per orientare lo studio in modo più preciso, sapendo in partenza quali sono i risultati più probabili e quelli più improbabili. Purtroppo, a oggi l’animale rimane insostituibile per fare progressi nella lotta alle malattie umane, e quindi per la vita di chi sta male. E, ricordiamolo, anche per gli animali stessi: senza la sperimentazione non ci sarebbero farmaci oggi largamente utilizzati dai veterinari per gli animali d’affezione, come gatti e cani.

Insomma, l’impiego di queste tecnologie pone diversi vantaggi e siamo noi che ci occupiamo di ricerca a doverle conoscere e saperle impiegare in modo ottimale.

Si sottolinea spesso (lo facciamo anche noi di Research4Life) che proprio i ricercatori sono tra i primi a voler ridurre l’impiego di animali, non solo per ragioni etiche ma anche per motivi economici, perché il loro mantenimento (lo stabulario, il cibo, i controlli sanitari e veterinari…) rappresentano un costo importante. Eppure, quando si viene alle tecnologie che ha citato, come la risonanza magnetica, il discorso cambia: i macchinari non sono quelli a uso umano ma costruiti specificatamente per animali più piccoli. Questo implica, oltre ai costi di acquisto e manutenzione, anche una maggior richiesta energetica (il campo dev’essere più forte per indagare un organismo più piccolo) e un personale formato ed esperto per il loro impiego. Quindi, la riduzione dell’uso degli animali, pur con i vantaggi etici e di risultato scientifico, può anche imporre costi maggiori.

Certo, soprattutto in termini d’investimento. Tuttavia, sono i risultati che si vogliono ottenere il punto più importante per chi fa ricerca: se li vogliamo migliori, più affidabili e accurati, dobbiamo prevedere anche una spesa maggiore. Insomma, lo scopo della ricerca è fare il meglio possibile, in modo che sia poi trasferibile alla sperimentazione umana.

Al di là delle tecnologie, nella sua esperienza, com’è cambiato il lavoro scientifico sugli animali negli ultimi sessant’anni?

Intanto, possiamo dire che vi sono stati miglioramenti organizzativi che possiamo fare nella sperimentazione animale prendendo spunto da ciò che facciamo in quella umana: per esempio, al Mario Negri abbiamo eseguito il primo esperimento per studiare un farmaco su un protocollo comune a diversi centri di ricerca e laboratori, cioè abbiamo fatto il primo studio animale multi-centrico, così da essere certi del risultato che viene riprodotto da più gruppi di ricerca. Oltre a migliorare l’affidabilità del risultato, questo metodo fa anche sì che non sia necessario un gran numero di animali per ciascun laboratorio, perché il numero complessivo risulta comunque alto.

Un altro esempio è la consapevolezza delle differenze di sesso: negli animali, così come negli umani, la sperimentazione era condotta prevalentemente sui maschi; ora è diventato sempre più evidente che maschi e femmine presentano differenze sotto vari aspetti, dai sintomi patologici alla risposta ad alcune sostanze, per cui adesso si studiano protocolli paralleli in modo da poter valutare anche queste differenze.

Più in generale, è chiaro che vi sono stati dei miglioramenti, a partire dalla maggior sensibilità dei ricercatori ne confronti della sperimentazione animale.

Lei ha parlato di sensibilità dei ricercatori: la riferisce solo al risultato della ricerca o anche ad aspetti che chiamano in causa l’etica dell’uso degli animali?

Anche quelli etici! La sensibilità che c’era a metà anni ’50 non era certo quella di oggi, e non vale solo per chi fa ricerca. Un tempo, gli animali erano sostanzialmente oggetti, allevati apposta per gli esperimenti; oggi li vediamo in modo decisamente diverso e riconosciamo la loro senzienza e la necessità di tutelarli al meglio da dolore e sofferenza.

Credo si possa affermare che l’Istituto Mario Negri è sempre stato all’avanguardia, in Italia, in termini sperimentazione animale: da cosa origina quest’attenzione nei loro confronti?

Molto è frutto dai rapporti internazionali che abbiamo da sempre stabilito e mantenuto, che ci hanno indirizzato su questi aspetti. Soprattutto il confronto con gli Stati Uniti: negli anni ’60 avevamo contratti con il governo statunitense, che avevano regole precise sulla sperimentazione animale che da noi sono arrivate un po’ dopo. D’altronde, avevamo l’opportunità di lavorare con centri di ricerca dei massimi livelli.

Lei ha una lunga e soprattutto ricca carriera. Come vede il futuro della ricerca animale? Quali sono gli aspetti più importanti che stanno emergendo o emergeranno?

Secondo me, uno degli elementi più significativi lo vedremo in un cambiamento dei modelli animali. Non solo in termini di maggior uso e conoscenza sugli invertebrati ma anche per gli animali geneticamente modificati che ci permettono di avere dei modelli di malattia umana: penso che diventeranno sempre più aderenti alla realtà umana, garantendo risultati migliori. Come sempre, però, tutto parte dalla competenza e dalla formazione, che penso diventerà sempre meno generica e sempre più specializzata, se davvero si vogliono ottenere i risultati migliori.

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