Ripercorriamo la strada della normativa europea che ha portato al divieto di valutare la sicurezza degli ingredienti dei prodotti cosmetici sugli animali, e lo stato dell’arte dei metodi alternativi per gli studi tossicologici che interessano, in particolare, l’industria cosmetica

Nell’Unione europea, il completo divieto di test sugli animali per quanto riguarda gli ingredienti destinati a uso cosmetico è in vigore da ormai nove anni, e per i prodotti il divieto dell’uso degli animali addirittura dal 2004. Vale la pena ripercorrerne la storia, non solo perché capita ancora spesso di trovare siti e prodotti che vantano di essere “non testati sugli animali” ma anche perché il divieto è stato promulgato pur in assenza, in alcuni ambiti tossicologici, di test alternativi: quali? E a che punto è oggi la ricerca?

Cos’è un prodotto cosmetico

Due parole, innanzitutto, su ciò che s’intende con cosmetico.  Il Regolamento (CE) n. 1223/2009 del Parlamento Europeo e del Consiglio sui prodotti cosmetici definisce prodotto cosmetico: “qualsiasi sostanza o miscela destinata a essere applicata sulle superfici esterne del corpo umano (epidermide, sistema pilifero e capelli, unghie, labbra, organi genitali esterni) oppure sui denti e sulle mucose della bocca allo scopo esclusivamente o prevalentemente di pulirli, profumarli, modificarne l’aspetto, proteggerli, mantenerli in buono stato o correggere gli odori corporei. Rientrano quindi in questa definizione sia i prodotti di make up (mascara, rossetti, fondotinta eccetera) sia quelli per l’igiene personale (dal dentifricio ai deodoranti e ai prodotti per la rasatura), o per mantenere la pelle idratata e proteggerla dagli effetti dannosi delle radiazioni ultraviolette, e anche i prodotti per la colorazione dei capelli.

Esistono anche, naturalmente, dei prodotti borderline, per i quali non è sempre facile capire se possano rientrare nella definizione di “cosmetico”: per esempio, un chewing-gum pensato per aiutare a mantenere puliti i denti, che quindi rilascia sostanze nella bocca. In questo caso, l’UE affida la valutazione al Comitato Scientifico per la Sicurezza dei Consumatori (SCCS), con le linee guida per la sperimentazione degli ingredienti cosmetici e la loro valutazione della sicurezza.

Il divieto di test sugli animali per i prodotti cosmetici

Il percorso che ha portato al divieto di test sugli animali per i prodotti cosmetici in UE è iniziato nei primi anni ’90, con una direttiva che prevedeva il divieto di vendere cosmetici che fossero testati sugli animali. La direttiva era riferita al solo prodotto finito, non ai suoi componenti, e la sua entrata in vigore era prevista per il 1998, così da lasciare tempo alla ricerca di metodi alternativi per i test di sicurezza. Nel 1997, poiché questi non erano ancora disponibili, il bando è stato prorogato al 2000, e poi ancora al 2002. Nel 2003, infine, è stato approvato il settimo emendamento alla direttiva europea 76/768/EEC, che prevedeva di far entrare in vigore, in fasi successive, una serie di divieti: quelli per i test sul prodotto finito e sui suoi ingredienti, e quello della vendita di prodotti finiti testati sugli animali, o dei quali lo fossero stati i loro ingredienti.

Il primo di questi divieti, cioè il divieto di testare prodotti cosmetici sugli animali, è entrato in vigore nel 2004. È seguito, nel 2009, il divieto di testare sugli animali gli ingredienti usati nei prodotti cosmetici per la valutazione della tossicità acuta, quella che si può verificare in tempi ridottissimi. È da notare che questo riguardava i prodotti nuovi, quelli prodotti dopo l’entrata in vigore del bando: i prodotti e gli ingredienti già sul mercato potevano continuare a essere commercializzati, così come sono rimasti validi i risultati degli studi di riferimento che avevano impiegato animali. Restava invece ancora la possibilità di eseguire test sugli animali per alcuni aspetti per i quali non esistevano ancora metodi alternativi convalidati dai centri di riferimento della Commissione come EURL ECVAM, il centro di riferimento europeo per le alternative all’impiego degli animali:  la tossicità a dosi ripetute (cioè cosa avviene con somministrazioni ripetute dell’ingrediente del prodotto cosmetico), la tossicità riproduttiva (il danno che un prodotto può causare sull’apparato riproduttivo e sullo sviluppo embrionale) e la tossicocinetica (come il corpo “maneggia” la sostanza e come questa viene assorbita, distribuita, metabolizzata ed escreta) .

Nel 2013, infine, il bando è entrato in pieno vigore, compreso del divieto di vendita di prodotti finiti i cui ingredienti fossero stati sperimentati  sugli animali, con il regolamento 1223/2009. «È da notare, però, che se il SCCS è a conoscenza dell’esistenza di risultati sperimentali ottenuti in vivo su particolari sostanze utilizzate in campi differenti da quello cosmetico richiesti dalla Agenzia Europea delle sostanze Chimiche (ECHA), può richiedere l’accesso a questi studi e valutare se i risultati hanno un impatto sulla valutazione del rischio della sostanza da utilizzare in campo cosmetico», spiega Corrado Galli, presidente della Società italiana di tossicologia (SITOX).

Per inciso, è del 2013 anche il regolamento UE 655/2013, che stabilisce i criteri per le dichiarazioni sui prodotti cosmetici. Il primo di essi riguarda la conformità alle norme e prevede anche che, in pratica, un prodotto non possa avere claims che suggeriscano un beneficio specifico se questo consiste semplicemente nel rispetto dei requisiti di legge. È per questa ragione che la dicitura “non testato sugli animali” non è ammessa, dal momento che tali test sono già vietati per tutti i prodotti cosmetici dalla legislazione UE.

Il bando è entrato in vigore indipendentemente dalla disponibilità di metodi alternativi covalidati per gli studi di tossicità ripetuta e riproduttiva e di tossicocinetica. Il regolamento prevedeva che il Parlamento e il Consiglio europei dovessero essere informati sullo stato dell’arte dei metodi alternativi per i test tossicologici: la Commissione era tenuta a informarli se i test oggetto del divieto potessero essere sostituiti, con metodi convalidati, entro il 2013. Nel 2011 è stato quindi presentata una relazione, basata su un report tecnico del Joint Research Center (JRC) e su una consultazione pubblica, che confermava come in alcuni campi test alternativi non sarebbero stati disponibili entro la data prevista; è seguita una valutazione d’impatto che considerava la possibilità di un rinvio del divieto o deroghe per nuovi prodotti. La conclusione finale della Commissione europea, presentata nel marzo 2013, è stata comunque quella di far entrare in vigore la direttiva nei tempi previsti: tra le ragioni, il fatto che il divieto non fosse subordinato alla disponibilità di metodi alternativi, che la ricerca su questi ultimi avrebbe potuto essere rallentata dal rinvii all’entrata in vigore del divieto, che le deroghe caso per caso avrebbe potuto portare a scelte controverse, e anche che i rischi avrebbero potuto rappresentare in realtà un’opportunità in termini d’innovazione responsabile.

Da allora, la ricerca sui metodi alternativi è sempre proseguita, come evidenziano anche i report di EURL ECVAM (qui abbiamo raccontato dei principali risultati emersi dal suo report annuale).

Uno sguardo ai metodi alternativi per la tossicologia in campo cosmetico

«Dobbiamo innanzitutto considerare che gli animali impiegati per i test in campo tossicologico rappresentano una piccola parte del totale degli animali impiegati a scopi scientifici, e quelli utilizzati nel settore cosmetico rappresentavano una frazione ancora più piccola (0.1%)», spiega Emanuela Corsini, professoressa di tossicologia all’Università degli Studi di Milano. Come si legge nelle FAQs dell’UE, infatti, nel 2004 erano stati impiegati circa 9.000 animali e, già nel 2009, la cifra era scesa ad appena 344. Per fare un confronto: nel 2018, cui risalgono i dati dell’ultimo report europeo, gli animali usati per la ricerca di base e applicata sono 10,8 milioni, tenendo conto anche dei dati norvegesi. «Questa tendenza riflette quella più generale e attuale della tossicologia, fortemente orientata sul principio delle 3R, e per la quale gli animali sono sempre meno impiegati. Se guardiamo i dati europei, infatti, è soprattutto la ricerca, di base e applicata, a impiegare di più i modelli animali, mentre quelli usati per gli studi di tossicità sono meno del 10% del totale», aggiunge Corsini.

«D’altronde, almeno in alcuni campi esistono ormai metodi alternativi validati. Questo vale soprattutto per la tossicità locale, come sensibilizzazione e irritazione», continua la professoressa. Questi metodi comprendono, in particolare, i modelli di epidermide e cornea ricostruita, usati per i test di irritazione cutanea e oculare. Si tratta di colture cresciute in 3D, per meglio simulare la situazione naturale delle cellule, che utilizzano cheratinociti umani, derivanti per esempio da espianti di cute. A volte è anche possibile impiegare sottoprodotti dell’industria della carne, come espianti di cornea bovina o occhio isolato di pollo o coniglio per valutare la tossicità oculare.

A mancare nella routine tossicologica, ma ben presenti nelle attività di studio, sono invece modelli convalidati che consentano di valutare la tossicità multisistemica e per la tossicità a dosi ripetute. «È opinione comune che lo sviluppo di metodi alternativi che rappresentino un valido approccio nel campo dello studio di cancerogenesi, immunotossicità e tossicità della riproduzione sia estremamente difficoltoso (se non impossibile) a causa delle risposte molteplici che un organismo vivente nella sua caratteristica complessità può mettere in atto allo scopo di reagire a uno stimolo avverso.  Vi sono però metodi che si stanno rivelando promettenti», spiega Galli. È il caso, per esempio, deii cosiddetti human-on-a-chip, sistemi microfisiologici costituiti da diversi tessuti (per esempio epatico, di rene, midollo osseo eccetera) collegati tra loro, così da simulare ciò che avviene nel nostro organismo all’esposizione di una certa sostanza. Spesso, nei progetti di ricerca, questi sistemi sono integrati e comprendono sia modelli in vitro sia modelli computazionali (in silico), che offrono una simulazione virtuale di come una certa sostanza può essere metabolizzata dall’organismo. «Quello della tossicità multisistemica rappresenta un problema limitato per gli ingredienti cosmetici ad alto peso molecolare, con caratteristiche idrofile, o in forma di nanomateriali che difficilmente penetrano la barriera cutanea in e quindi non in grado di provocare tossicità sistemica», spiega Corsini. «Inoltre, se gli stessi ingredienti trovano usi anche in settori diversi da quello cosmetico, come il farmaceutico o l’alimentare, per i quali sono ancora richiesti i test di tossicità sugli animali, anche l’industria cosmetica può avvantaggiarsi dei risultati di questi studi».

«In generale, il divieto di test sugli animali in campo cosmetico ha avuto effetti molto positivi, stimolando la ricerca sui metodi alternativi non solo in UE ma anche nei Paesi che vi importavano prodotti cosmetici, che dunque non potevano più essere venduti in Europa se testati sugli animali», commenta Corsini. «Naturalmente, la prima garanzia deve comunque essere la sicurezza del consumatore, come ben evidenziato anche dal regolamento europeo sui cosmetici: per questo sono attivi (e in Italia vi fa capo il Ministero della Salute) meccanismi di cosmetovogilanza per la segnalazione di effetti indesiderabili (tra quelli segnalati, l’80% riguarda reazioni di irritazione e sensibilizzazione) e di sorveglianza per garantire la conformità dei prodotti».

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