Pubblicato nel 2023 da Einaudi, Io le patate le bollo vive è il libro, scritto a quattro mani dal medico e professore all’Università Vita-Salute San Raffaele Roberto Sitia e dal responsabile del benessere animale dell’Università Statale di Milano e portavoce di Research4Life Giuliano Grignaschi.

Il saggio affronta il tema della sperimentazione animale nei suoi aspetti principali, offrendone una panoramica tanto sintetica quanto completa. Tocca quindi gli aspetti legislativi per l’Unione europea e l’Italia, quelli relativi agli aspetti scientifici (compresi gli avanzamenti sui metodi alternativi o complementari), quelli storici; né dimentica una riflessione etica seria, che permea in modo più o meno esplicito tutte le pagine del testo.

Insomma, Io le patate le bollo vive tocca e approfondisce moltissimi degli aspetti che regolarmente trattiamo anche su questo sito. Oggi intervistiamo gli autori, per farci raccontare come sia nato il saggio e farci raccontare da loro alcuni degli aspetti distintivi del volume.

Cosa vi ha spinti a scrivere (e a farlo insieme) Io le patate le bollo vive?

Roberto Sitia: L’idea è nata da un colloquio avuto con gli editori di Einaudi, che ritenevano l’argomento importante e mi hanno proposto di dedicarvi un libro. L’idea mi ha incuriosito e, su consiglio del mio amico e collega Luca Guidotti, ho contattato Giuliano per lavorare insieme al testo. Puntando in alto, potrei dire che la spinta a dedicarmi alla scrittura di questo saggio è stata la speranza di contribuire a smentire l’idea che, almeno su alcuni argomenti, “uno vale uno”, cioè che per pronunciarsi sulla liceità dell’uso di animali in ricerca sia necessario avere cognizione di causa e conoscenze solide.

Giuliano Grignaschi: Penso che sia oggettivo il bisogno di cercare, almeno, di controbilanciare una comunicazione distorta sul tema della sperimentazione animale. Così, ci siamo assunti questo compito – d’altronde, ho scoperto nel tempo che i compiti difficili sono un forte stimolo per Roberto! – e abbiamo portato avanti il tentativo, che volevamo e ritenevamo necessario almeno nei confronti delle persone che hanno voglia di ascoltare.

Il titolo è decisamente curioso: chi lo ha scelto di voi, e come gli è venuto in mente?

RS: Me ne assumo responsabilità! Ma anche l’onore, perché in verità ne sono molto contento. Ho avuto la fortuna di lavorare due volte con Rita Levi Montalcini, premio Nobel nel 1986 per la scoperta e la descrizione del fattore di crescita delle cellule nervose: la prima volta quand’ero studente di medicina nel suo laboratorio, e più tardi quando sono stato consigliere scientifico per la Treccani. È proprio da a lei che il saggio deve il titolo.

A metà anni Novanta, infatti, si tenne uno dei primi incontri tra il nascente movimento animalista ed esponenti della ricerca biomedica, tra cui Montalcini. Quando, al termine dell’incontro, le chiesi come fosse andato, mi rispose: «Caro, è stato davvero interessante. Solo alla fine due falchi del movimento sono venuti verso di me col pugno alzato e le giugulari gonfie e mi hanno detto: “No alla violenza, neanche contro le piante, sono anche loro senzienti!”. Al che ho risposto: “No, cari, su questo terreno non posso seguirvi. Io le patate le bollo vive”».

Fin dalle prime pagine del libro, scrivete che «Non si rivolge alle frange estreme, generalmente mosse da odio e ideologia più che da sentimento e ragione». Ma quali erano per voi gli obiettivi del saggio, e a chi vi volevate rivolgere principalmente?

GG: Volevamo parlare a tutte le persone che, giustamente, hanno a cuore gli animali e alle quali dobbiamo quindi, come ricercatori, essere in grado di giustificarne l’uso nella sperimentazione. E volevamo parlare a coloro che, postisi il problema del benessere degli animali usati in ricerca, hanno voglia di cercare di analizzarlo, per comprenderlo e arrivare a conclusioni basate sui fatti. Tutto questo lo ritenevamo dovuto, anche perché la ricerca impiega denaro pubblico. Ma, appunto, il libro non è pensato per chi basa le proprie argomentazioni su preconcetti e facili slogan, e non ha nessuna voglia di ascoltare.

RS: Proprio da poco ho partecipato a una conferenza dedicata all’esitanza vaccinale, nella quale si evidenziava che spesso chi esita a vaccinarsi è chi sa troppo o troppo poco. Penso che anche nel dibattito sulla sperimentazione animale possa avvenire qualcosa di simile: per chi conosce poco il tema, ci auguriamo che il nostro libro sia uno strumento per saperne di più. Speriamo invece che chi “sa troppo” abbia modo di leggerlo con maggiore cura, perché a volte si ha una tendenza a sentirsi “immuni” dalla necessità della sperimentazione animale, per esempio per trovare nuovi farmaci, e dunque dalla difesa degli animali stessi – aspetto che invece Giuliano e io vogliamo difendere.

Il battage pubblicitario dei movimenti animalisti, le loro azioni di comunicazione sono state decisamente più intense, finora, rispetto a quelle del mondo scientifico, e questo è stato un grave errore di chi fa ricerca. Ora dobbiamo farci sentire in questo dibattito avvicinandoci alla sete di sapere della società senza abbandonare l’aderenza ai fatti che caratterizza il metodo scientifico.

Come avete selezionato gli argomenti da trattare? C’è ne sono alcuni che avreste voluto includere ma alla fine non sono stati inseriti?

GG: Abbiamo cercato d’individuare le maggiori lacune nel dibattito in tema di sperimentazione animale che si svolge di solito sui media. In particolare, abbiamo cercato d’illustrare il percorso, secondo noi virtuoso, che porta chi fa ricerca a individuare e scegliere i migliori metodi, tra quelli a disposizione, per arrivare a un risultato a beneficio di tutta l’umanità. Questo ci ha portato ad adottare anche una prospettiva storica, spiegando per esempio perché è stato inserito, nel corso degli anni, l’obbligo di eseguire alcuni test sugli animali prima che il farmaco o la sostanza fosse usata per l’essere umano.

Ci premeva anche fare una riflessione, che è un po’ il nocciolo del testo: ha davvero senso parlare di diritti degli animali? Non è forse meglio parlare, concentrarsi, su una giusta tutela del loro benessere?

Un tema che avremmo voluto trattare ma che alla fine, per ragioni di spazio, è stato solo accennato, è invece quello dell’aggressività nei confronti di chi fa ricerca con gli animali. È un aspetto davvero grave, purtroppo attualissimo, e che ha elementi paradossali: per esempio, nelle le spese richieste per mettere i laboratori al sicuro da eventuali incursioni, dovendo usare in porte blindate e sistemi di guardia, denaro che potrebbe essere speso in modo ben più costruttivo, specie in un paese che da sempre investe troppo poco nella ricerca.

RS: Un giorno, durante i primi mesi della pandemia di COVID-19, sono stato marchiato dal colloquio avuto con medico, mio ex allievo, che mi ha raccontato di non vedere la famiglia da tempo e aver dovuto negare il respiratore a un paziente anziano per darlo a uno più giovane. Ecco, una sensazione simile vive anche chi usa gli animali in ricerca. Questo è uno dei messaggi che volevamo passare: chi usa gli animali lo fa a malincuore e non certo per sadismo o cattiveria. Lo fa perché è una alternativa obbligata per ridurre il grado di sofferenza complessivo sul pianeta. Qualcuno deve prendersi il doloroso compito di scegliere il male minore.

Un vostro parere: quali sono oggi, secondo voi, gli aspetti più importanti su cui lavorare per garantire il benessere degli animali usati per la sperimentazione?

GG: Può sembrare banale: la formazione del personale. E, una volta formato il personale, il mettersi in condizione di mantenerlo. Ribadiamo sempre che la sperimentazione animale ha costi elevati, che gli animali richiedono cure costanti ed esperti che ne controllano lo stato di benessere; e questi ultimi devono, appunto, ricevere una formazione e una retribuzione adeguate a un compito così importante e complesso. In sintesi, direi che ciò che serve alla ricerca, anche allo scopo di migliorare le condizioni degli animali impiegati, sono maggiori finanziamenti. Che permettano di formare il personale, scegliere le migliori strategie d’intervento, impiegare le strumentazioni più adeguate, raggiungere risultati più solidi… Tutti aspetti legati anche al benessere animale.

Un’ultima domanda: come si dovrebbe porre chi fa ricerca, soprattutto se usando animali, con il pubblico generico e la cittadinanza?

RS: mi fa piacere questa domanda! Da tanto tempo cerco di fare del mio meglio per contribuire a un miglior rapporto tra scienza e società. Faccio un esempio dal mio lavoro quotidiano. Le lauree in medicina e biotecnologia che presiedo sono sempre un pot-pourri di termini scientifici e tecnici dei quali parenti e amici che assistono difficilmente possono comprendere qualcosa. Ecco, continuo a proporre due momenti separati: una prima presentazione per la commissione scientifica, e una seconda per familiari e amici, nella quale il lavoro sia spiegato anche a chi non è del mestiere. Questo tipo di sforzo, lo spiegare argomenti specifici, tecnici, anche a persone non esperte, spiazza anche i migliori studenti. In questo senso, dobbiamo fare un grosso sforzo partendo già dalle scuole affinché tutti siano in grado di spiegare anche questo tipo di temi.

GG: Concordo, e aggiungo una riflessione che ho fatto solo di recente: ciò che serve e davvero buttarsi, in questo mare agitato della comunicazione, affrontando i temi nel modo più comprensibile possibile. Questo perché la continua discussione che avviene tra chi si occupa di ricerca è interpretata dall’esterno come una forma d’insicurezza, un “vedi, neanche loro lo sanno”. Quindi cavillare e cercare troppo il dettaglio nella divulgazione non è utile.

In effetti, è ciò che abbiamo cercato di fare anche nel nostro saggio, che infatti è molto conciso: volevamo fosse diretto e alla portata di tutti. Tanto più che la comunicazione in tema di sperimentazione animale si confronta con un’altra, quella dell’attivismo animalista, che è molto forte e basata sull’emotività. Pur mantenendo il rigore scientifico, noi ricercatori dovremmo imparare rinunciare, almeno in alcuni casi, alla precisione millimetrica che caratterizza il nostro lavoro a vantaggio di una comunicazione più chiara. Insomma, dovremmo giocare meno di fioretto e usare di più la spada.

RS: A concludere, inserisco un ultimo pensiero sul ruolo fondamentale di una buona comunicazione scientifica. Ancora l’altra sera, ascoltando un talk show, ho rimpianto l’assenza di palpebre per le orecchie… Trovo intollerabile vedere persone, di un certo livello culturale, che non sono in grado di ascoltare ma gridano slogan offrendo soluzioni semplicistiche -e di solito inattuabili- problemi complessi. Spesso nessuno dei contendenti ha una minima idea concreta e tantomeno una specifica preparazione per parlarne. Spero che il contributo della comunicazione scientifica sia proprio quello d’imparare a tacere per poterci ascoltare l’un l’altro, così da trovare una soluzione condivisa al problema, senza accapigliarci come tifosi di calcio.

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