In occasione della campagna BOARD24, dedicata alla trasparenza sulla sperimentazione animale, abbiamo fatto una riflessione sul linguaggio usato per parlarne. Linguaggio che, come i contenuti, deve cercare di favorire chiarezza e comprensione: è per questo che, come Research4Life, abbiamo sempre preferito scelte stilistiche che evitano i tecnicismi a favore di un contenuto più immediato.
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Quando il gatto non c’è, i modelli preclinici ballano. Una versione alternativa del noto proverbio può rendere bene l’idea di un problema legato al linguaggio usato per parlare di sperimentazione animale.

Oggi, in occasione della campagna per la trasparenza sulla sperimentazione animale promossa dalla European Animal Research Association (EARA), vogliamo infatti dedicare una riflessione al linguaggio per trattare questo tema, spiegando alcune delle scelte terminologiche che usiamo per i nostri articoli e approfondimenti.

Linguaggio specialistico e sperimentazione animale

Parlare (o scrivere) di sperimentazione animale non è semplice. Non solo perché si tratta di un tema molto complesso, con risvolti etici e scientifici rilevanti, ma anche perché le ragioni e i metodi che ne sono alla base richiedono spesso competenze e conoscenze pregresse che è difficile possedere se non si è “del campo”.

Inoltre, come ogni campo specialistico – non solo scientifico, ovviamente – anche la ricerca biomedica impiega una terminologia specifica e precisa. Poco intuitiva, basata su termini che certo non si usano nella vita quotidiana (chi chiederebbe di accarezzare il lagomorfo invece del coniglio?), questa terminologia può rappresentare un ostacolo quando si parla di temi scientifici in generale.

Quando poi il tema in particolare è la sperimentazione animale, l’uso di un linguaggio tecnico che stenta a farsi comprendere rischia di diventare qualcosa di più di un ostacolo alla divulgazione e all’informazione. Rischia, cioè, di diventare una sorta di “scudo eufemistico”: un modo per evitare di richiamare il nostro pensiero sugli animali usati e, in questo modo, stimolare possibili controversie.

Come Research4Life cerchiamo di assicurare un’informazione corretta e trasparente trattando, per esempio, i limiti dell’uso degli animali in ricerca, i problemi per garantirne il benessere e seguire l’approccio delle 3R, le potenzialità dei metodi alternativi (e, anche in questo caso, dei loro limiti). Come trasparenti vogliamo rendere i nostri contenuti, nello stesso modo vorremmo che correttezza e trasparenza siano presenti anche nel linguaggio che usiamo.

In quanti modi si può dire topo

“Un farmaco testato in modelli preclinici”, “Uno studio in vivo su modelli murini”, “Lo sviluppo di un modello sperimentale geneticamente modificato” eccetera. Sono tutte espressioni che si possono ritrovare non solo negli articoli scientifici ma anche, spesso, in quelli divulgativi e nei comunicati stampa. Non sono scorrette, anzi. Quando però di sceglie di fare divulgazione e informazione, può essere importante abbandonarle a favore di versioni più dirette e, comunque, altrettanto corrette.

«È la scelta che abbiamo preso noi come Research4Life: optare per le formule di più immediata comprensione. Scriviamo insomma che uno studio è stato condotto nei topi, non in modelli murini», spiega Giuliano Grignaschi, portavoce di Research4Life. «Questo può senz’altro richiamare in modo più immediato anche immagini angosciose – quelle di animali che ben conosciamo sottoposti a procedure più o meno invasive. Ma, per noi, anche questo è un aspetto importante: non vogliamo negare che la sperimentazione animale sia angosciante e possibile fonte di sofferenza, sia per gli animali sia per chi si trova a praticarla (sia chiaro, non vale sempre. Si considera sperimentazione animale anche un semplice prelievo di sangue). Ma è senz’altro più onesto mettere bene in chiaro cosa si sta facendo, un po’ come dovremmo essere sempre consapevoli che la bistecca comprata per cena era un maiale vivo e vegeto».

Sacrificio o uccisione?

Con queste premesse, c’è un termine che in realtà ci porta tutt’ora a interrogarci. Si tratta dell’espressione sacrificio, abitualmente usata per indicare l’uccisione di un animale quando questa è necessaria per gli esperimenti; è sostanzialmente un termine tecnico. Si differenzia dall’eutanasia, che è infatti riferita alla soppressione quando si è raggiunto lo humane endpoint, il limite al quale l’animale inizia a mostrare stress o sofferenza e bisogna intervenire con le misure per limitarli. A seconda dei casi, queste possono essere la somministrazione di analgesici e antidolorifici o, appunto, possono richiedere l’eutanasia.

Per certi aspetti, il termine sacrificio può essere percepito come ipocrita, come si volesse mascherare con un eufemismo la morte dell’animale; ha inoltre una connotazione religiosa ben poco apprezzabile in campo scientifico. I problemi posti da questa espressione hanno portato a parlarne anche nella letteratura scientifica. Alcuni articoli preferiscono usare un più diretto “uccisione” degli animali da laboratorio: proprio come avviene specificando gli animali usati con il loro nome comune, l’immagine evocata è più cruda ma forse di maggior chiarezza.

C’è qualcosa che però può rendere, secondo noi, il termine sacrificio appropriato quando si parla di sperimentazione animale. Da dizionario, in senso figurato il sacrificio è una “privazione, rinuncia, disagio imposto da determinate condizioni o sopportato in vista di un dato scopo”.

«Dal mio punto di vista, il termine sacrificio è corretto, perché si tratta di un atto compiuto, in modo meditato, come extrema ratio per ottenere un risultato di bene maggiore – migliorare la salute umana e, in molti casi, quella degli altri animali», spiega Grignaschi. «È la rinuncia di un bene prezioso, la vita di un essere vivente, per uno scopo di enorme importanza, e per un enorme numero di individui».

Chi pratica la sperimentazione animale è spesso ancora presentato come una persona priva di empatia, che prova piacere nella sofferenza o al limite indifferenza per la sofferenza degli animali. Non è un quadro veritiero: il carico emotivo e psicologico per chi la svolge, soprattutto all’atto del sacrificio (o dell’uccisione) degli animali, è enorme. In questo senso, il termine sacrificio può aiutare a descrivere il peso etico che l’azione implica.

Qualche parola per concludere

Questa nostra riflessione sul linguaggio non vuole porsi come una linea guida ma proporre un ragionamento per chi pratica la sperimentazione animale, ed è dunque chiamato anche a spiegarne logiche e motivazioni. Lo scopo non è certo “far cambiare idea” al riguardo, ma assicurare informazioni corrette per la piena consapevolezza su questa pratica.

Le scelte terminologiche possono avere implicazioni importanti sulla percezione di chi ascolta. Ragionare su queste scelte è allora fondamentale per raccontare in modo chiaro e trasparente le pratiche scientifiche cercando, così, di garantire la possibilità di un dialogo aperto e informato.

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