Se è vero che la sperimentazione animale rimane imprescindibile in molti campi della ricerca biomedica, è anche vero che in alcuni contesti, oggi, abbiamo potuto sostituirla con altri metodi e tecnologie. Ne sono un esempio alcuni tipi di studi in campo tossicologico, per i quali i modelli animali non sarebbero sostenibili per le necessità della ricerca

Una domanda che si pone spesso, quando il tema è la sperimentazione animale, è: ma non sono sufficienti i modelli alternativi? Insomma, sono davvero ancora necessari gli animali in ricerca? Le risposte a queste due domande sono, rispettivamente, “no” e “sì”. Diversi dei nostri articoli ne riportano le ragioni. Le principali sono che nessun modello alternativo è in grado di replicare la complessità di un organismo vivente, aspetto che comprende non solo l’interazione tra i diversi sistemi, organi e tessuti ma anche, per esempio, le differenze tra i sessi e l’effetto dell’ambiente. Tanto che i modelli definiti alternativi sono, più che altro, complementari. Sono, cioè, metodi che permettono di ridurre in modo sostanziale l’impiego di animali, che rimangono così necessari solo in fasi più avanzate della ricerca. Ma non permettono di escluderli completamente.

Pur con questa premessa, ci sono dei campi della ricerca nei quali è stato non solo possibile, ma anche necessario, passare dall’uso degli animali a nuove tecnologie. È il caso di alcuni studi tossicologici: ce ne parla Emilio Benfenati, direttore del Dipartimento Ambiente e Salute dell’Istituto Mario Negri.

Questione di necessità

«Nel nostro dipartimento lavoriamo per la protezione dell’ambiente e della salute umana. Ma abbiamo un problema – un problema attuale, non futuro: ciascuno di noi è circondato da centinaia di migliaia di molecole inquinanti e contaminanti. È un’emergenza conclamata, ma come trovare soluzioni?», spiega Benfenati. «Ormai non possiamo più ragionare nell’ottica di capire se una sostanza è dannosa solo quando è stata ormai immessa sul mercato (e nell’ambiente), come avvenuto per esempio nel caso dei PFAS, ma dobbiamo muoverci in ottica preventiva».

È quanto previsto dalla normativa europea REACH, relativa alla registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche. Il principio della normativa è infatti che l’industria abbia determinate informazioni sulle molecole prima che queste siano immesse nel mercato. Sembra banale, ma bisogna considerare che si tratta di un numero enorme di molecole da valutare (si va dai pesticidi ai detergenti, fino alle sostanze introdotte con la dieta) e per le quali sono da tenere in considerazione gli effetti a lungo termine. Per ciascuna è necessaria una lunga serie di controlli per valutare tossicità, possibili effetti carcinogeni, potenziali danni ambientali, effetti sulle diverse specie eccetera.

«Eseguire i test su ogni singola sostanza richiede anni di studio ed enormi quantità di animali. Per i soli test di tossicità ambientale sui farmaci prioritari, possiamo stimare che servirebbero 70 anni di test e circa 300.000 pesci», spiega Benfenati. «Insomma, le metodiche consuete sono lunghe da eseguire e non possono sostenere il ritmo delle sostanze immesse sul mercato, anche senza considerare i costi economici. Non esisterebbero nemmeno laboratori sufficienti per svolgere tutti i test e i tempi necessari non sono compatibili con le necessità attuali: infatti, noi e l’ambiente siamo esposti oggi. L’unico modo per rispondere queste necessità è allora avvantaggiarsi di risorse che siano in grado di gestire grandi numeri in tempia rapidi. Cosa resa oggi possibile grazie agli sviluppi enormi di hardware, di software e di dati».

Lavoro da computer

Entrano così in gioco i computer, al posto dei modelli animali. Partendo da una raccolta di molecole e dati (in casi complicati poche decine o centinaia, ma che possono arrivare a diverse migliaia) e dai descrittori molecolari (come il numero di atomi di carbonio, il peso molecolare eccetera), che il computer calcola a decine di migliaia, è possibile correlare le diverse caratteristiche della molecola a determinate proprietà. Tutto questo è possibile farlo in tempi brevissimi.

Attenzione però, perché anche in questo passaggio gli animali rimangono in un certo senso inclusi. Non direttamente, ma sulla base dei risultati di ricerche svolte in passato: «Anche questi metodi in silico, cioè basati su simulazioni computerizzate, sfruttano i risultati di studi precedenti sull’animale. Questi sono quindi sempre necessari, ma i computer estraggono al massimo quanto è disponibile. Oltre ai dati sull’animale vi sono dati sulle cellule e, molto importante, i vari dati di natura chimica e chimico-fisica. Insomma, sono molte informazioni eterogenee: una volta trasformati in numeri inseriti in schemi concettuali, i computer possono organizzare tali dati e produrre le conoscenze utili per le valutazioni delle sostanze», spiega Benfenati.

Un esempio

Per fare un esempio pratico di questo tipo di lavoro si può citare il progetto PREMIER, iniziato nel 2020, cui l’Istituto Mario Negri partecipa con altri 24 partner internazionali. L’obiettivo principale del progetto è sviluppare una piattaforma software per valutare gli effetti ambientali dei farmaci.

«La piattaforma contiene dati ambientali ed ecotossicologici, nonché informazione sulle attività farmacologiche dei farmaci. Vi sono anche informazioni sui dati degli inquinanti nei bacini idrici di tutta l’Europa e sugli oltre 26.000 depuratori europei, che rilasciano farmaci nell’ambiente (che noi, a nostra volta, rilasciamo nell’ambiente con l’urina), così da capire le concentrazioni che ci si può attendere nei fiumi e se rischiano di superare i limiti oltre alle quali possono avere un impatto. La valutazione dell’impatto ambientale è quindi svolta partendo dalla normativa, tenendo conto dei vari scenari espositivi e della modellazione del rischio. Tutto questo servirà a individuare i farmaci maggiormente a rischio per l’ambiente e individuare soluzioni di mitigazione», spiega Benfenati. «Il software sarà poi offerto all’EMA, l’ente regolatorio europeo per i farmaci, a vantaggio della comunità e facendo in modo che il progetto non sia fine a sé stesso ma possa continuare a evolvere nel tempo. Infine, e questa è quasi la parte più interessante, tutte le informazioni derivanti da questo lavoro saranno disponibili anche per il drug design, lo sviluppo di nuovi farmaci, in modo che possa partire da queste conoscenze».

Insomma, non è ancora possibile eliminare l’uso di animali da ogni campo della ricerca biomedica, ma le tecnologie si confermano come sempre più valide per limitarlo e, in alcuni casi, riescono effettivamente a escluderlo. È supportando queste innovazioni, investendo in tecnologie avanzate come la modellazione in silico e gli organi su chip, che possiamo sperare di ridurre ulteriormente la dipendenza dalla sperimentazione animale, migliorando al contempo la sicurezza e l’efficacia delle sostanze che entrano nella nostra vita quotidiana. Garantendo al contempo che ogni passo avanti sia equilibrato tra progresso scientifico e responsabilità etica.

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