Non sempre gli animali destinati alle varie procedure scientifiche possono poi effettivamente essere utilizzati: questo “surplus” si verifica soprattutto nell’ambito delle linee geneticamente modificate, quando l’animale non ha ereditato le mutazioni ricercate, ma può avvenire anche in altri contesti. Il mondo della ricerca scientifica, consapevole del problema, sta cercando sempre più di lavorare in ottica di refinement, applicando strategie per ridurre gli animali in eccesso e, nel caso, utilizzarli per altri scopi anziché sopprimerli

Nella nostra consueta rassegna di approfondimenti dedicati alle statistiche sulla sperimentazione animali in UE, abbiamo dedicato l’ultimo articolo alle linee geneticamente modificate (GM). Si tratta di animali il cui genoma porta delle alterazioni, indotte dai ricercatori, e che hanno un ruolo fondamentale nella ricerca biomedica. È proprio modificando il DNA di queste specie, infatti, che possiamo per esempio riprodurre molte malattie genetiche, anche rare in natura, in gruppi di animali omogenei. Ancora, questi animali ci permettono di capire cosa succede andando a rimuovere o modificare in altri modi un certo gene, così da capirne più chiaramente la funzione, o se l’aggiunta di un diverso gene consente una maggior resistenza a una malattia, e così via.

In generale, le applicazioni degli animali sono vastissime e di enorme importanza per la ricerca scientifica. L’Unione europea analizza di dati riguardanti questi animali separatamente da quanto fa con quelli non GM e, secondo l’ultimo report, i cui dati sono riferiti al 2020, gli animali usati per la creazione e il mantenimento delle linee GM erano il 22,3% del totale degli animali usati a scopo scientifico.

Tuttavia, questo non significa che tutti gli individui impiegati siano davvero geneticamente modificati. Perché? La ragione è che, anche se conteggiamo tutti gli animali impiegati a questo scopo, nel corso degli incroci necessari per creare (o mantenere) una linea GM non tutti gli individui ereditano la mutazione d’interesse per i ricercatori. Dipende dalle leggi dell’ereditarietà genetica, che non possono essere evitate e che fanno sì che alcuni animali, privi dell’alterazione d’interesse, non serviranno poi agli scopi dello studio.

Non solo: a volte, il tipo di ricerca prevede di lavorare su più di una mutazione, il che complica ulteriormente le cose e fa sì che una frazione ancora maggiore di animali non sia di fatto utile agli scopi dell’indagine. Oppure, lo studio richiede di concentrarsi in modo specifico su un solo sesso, escludendo l’altro. Dobbiamo infine anche considerare che, nel totale degli animali impiegati per la creazione/mantenimento di linee GM, si considerano anche quelli che non sono modificati ma vengono comunque coinvolti nelle procedure, per esempio le femmine cui viene impiantato un embrione GM o alle quali è indotta una superovulazione, procedura che consente di avere le cellule uovo da cui far crescere l’individuo GM.

Tutto questo significa che, nell’ambito della sperimentazione animale e in particolare nel contesto degli studi su linee geneticamente modificate, vi siano alcuni individui “in più”, cioè non effettivamente impiegabili per la ricerca.

La questione non riguarda comunque esclusivamente le linee GM: anche la necessità di avere la certezza di averne un numero sufficiente nell’ambito di un determinato progetto può far sì che alcuni individui rimangano inutilizzati, magari perché non sono del sesso o dell’età necessarie. Purtroppo, in alcuni casi questi animali vengono soppressi – una scelta sempre meno condivisa dalla comunità scientifica, che infatti è per prima impegnata a evitare questa pratica e ridurre al massimo il numero di animali inutilizzabili, in linea con il principio di refinement previsto nelle 3R.

L’associazione Animal Research Tomorrow ha realizzato un’interessante infografica per spiegare su quali strategie si concentra il mondo della ricerca, che riportiamo di seguito. In aggiunta ai punti indicati nell’infografica, vale la pena segnalare anche che, in Italia e in altri Paesi, a determinate condizioni e previo il parere favorevole del veterinario responsabile, è possibile inserire gli animali in un habitat o in un sistema di allevamento. È il cosiddetto rehoming, che comprende anche l’adozione da parte di privati o associazioni: ne abbiamo parlato anche qui, intervistando Stefano Martinelli, fondatore de La Collina dei Conigli, un’associazione che si occupa proprio dell’adozione di alcune delle specie più impiegate nella sperimentazione in Italia.

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