I risultati del voto espresso domenica 13 febbraio hanno bocciato a grande maggioranza la proposta di vietare, in Svizzera, l’importazione e lo sviluppo di farmaci testati sugli animali; un risultato importante per la ricerca medica, che altrimenti sarebbe stata gravemente limitata, e per i pazienti che assumono quei farmaci

Domenica 13 febbraio, i cittadini svizzeri sono stati chiamati a votare a un referendum che prevedeva quattro diversi quesiti. Tra questi, la possibilità di vietare l’importazione e lo sviluppo di farmaci che fossero stati testati sugli animali: tale quesito è stato respinto, con quasi l’80% dei votanti (comunque meno del 50% degli aventi diritto) che ha votato contro il divieto.

Il risultato è di grande importanza per la ricerca medica in Svizzera, nonché per chi deve assumere farmaci. Come ha spiegato il nostro portavoce Giuliano Grignaschi in un’intervista su Ohga, apparsa a pochi giorni dal referendum svizzero, infatti, il divieto sarebbe stato del tutto inattuabile a oggi, perché lo sviluppo di un farmaco, comprendente test di sicurezza ed efficacia, non può avvenire senza il modello animale; questo è appunto quanto previsto dalla legislazione in tutto il mondo . La principale ragione è facile da intuire: si pensi per esempio a un farmaco messo a punto per un certo organo, come il cuore; il suo metabolismo, cioè il modo in cui viene “processato” all’interno di un organismo, comprende però anche organi diversi, e gli effetti tossici e collaterali possono verificarsi anche in siti differenti dall’organo bersaglio, per esempio i reni o il fegato (tra gli organi principalmente deputati al metabolismo e allo smaltimento dei farmaci). Tali effetti non potrebbero quindi essere evidenziati in un modello in vitro né da un organoide, ma solo da un organismo vivente nella sua interezza.

«Questo non significa che i ricercatori siano tenuti, sempre e in tutti i campi, a impiegare i modelli animali. Anzi, il principio che guida la ricerca scientifica in questo ambito è proprio quello delle 3R (reduction, replacement, refinement) che globalmente mira a limitarne quanto più possibile l’impiego», spiega Grignaschi. «E la legislazione prevede infatti l’obbligo di impiegare modelli alternativi ovunque sia possibile, ossia in tutti i casi tali modelli si siano dimostrati altrettanto validi di quelli animali; l’uso di questi ultimi a scopi scientifici, inoltre, è regolamentato dall’Unione europea e, in Italia, passa attraverso lo stretto controllo del Ministero della Salute».

La proposta del referendum svizzero era stata sostenuta da alcuni gruppi animalisti, ma non aveva l’appoggio dei partiti né quello del governo e del Parlamento; non era stata appoggiata nemmeno dalla Protezione svizzera degli animali. «Il netto rifiuto della proposta sembra indicare almeno due cose: che i pochi (meno del 50%) cittadini che hanno votato sono consapevoli dell’importanza della ricerca scientifica e che una proposta così limitante avrebbe rappresentato un grave rischio sanitario e per i pazienti», conclude Grignaschi. «D’altronde, anche la pandemia di COVID-19 ha evidenziato tale importanza, e non possiamo non ricordare come, senza la sperimentazione animale e la ricerca di base, non saremmo stati in grado di mettere a punto dei vaccini in modo così tempestivo».

Inoltre, la scarsa partecipazione al referendum dimostra come su temi così complessi e tecnici lasciare la decisione in mano ai cittadini possa non essere la scelta più corretta. Al contempo, è sempre più chiaro all’opinione pubblica – come dimostra l’esito di questo referendum – che i ricercatori impegnati nello sviluppo di cure, vaccini e farmaci, sono i primi e più competenti garanti del benessere animale, proprio perché conoscono a fondo gli animali e li impiegano nella sperimentazione solo ove strettamente necessario a beneficio della comunità, applicando tutte le misure a salvaguardia delle buone pratiche dettate da leggi europee e nazionali estremamente cautelative.

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