Parliamo con Marcello Pinti, professore associato di Patologia generale all’Università di Modena e Reggio Emilia, per ripercorrere due delle tappe fondamentali che hanno portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA contro COVID-19 in appena un anno dall’inizio della pandemia. Mostrando come a volte studi iniziati tempo fa mostrino tutte le loro potenzialità solo a distanza di anni

Nella pandemia di COVID-19, i vaccini a RNA messaggero (mRNA) sono uno degli strumenti più importanti che abbiamo per proteggerci dal virus, nonché tra i principali ad averci consentito di riprendere, almeno in parte, la vita che avevamo in epoca pre-pandemica. Rappresentano, inoltre, dei vaccini unici per due aspetti principali: innanzitutto, sono basati su una tecnologia innovativa, quella dell’RNA messaggero; in secondo luogo, sono stati messo a punto in appena un anno circa, un tempo record se si considera che i vaccini “tradizionali” richiedono di solito un periodo compreso tra i 10 e i 15 anni prima di poter essere commercializzati.

Lo straordinario tempismo dello sviluppo dei vaccini contro COVID-19 è frutto tanto degli sforzi della comunità scientifica nel mitigare la pandemia, quanto di decenni di ricerca che stanno a monte della tecnologia impiegata. Ricerca prevalentemente di base, anche perché fino a pochi anni fa l’idea di impiegare l’mRNA a scopo clinico aveva preso relativamente poco piede. Qui ripercorriamo due di quelle che sono state le tappe fondamentali per mostrare come spesso, in ambito biomedico, le conoscenze che si accumulano nel tempo, pur non mostrando immediatamente la loro importanza, possono in seguito rivelarsi fondamentali. Proprio come è accaduto nel caso dei vaccini a mRNA in tempo di COVID-19.

Come funziona il vaccino

Vale la pena iniziare ricapitolando brevemente la modalità d’azione dei vaccini a mRNA. A oggi ne vengono impiegati due, Comirnaty (dell’azienda Pfizer/ BioNTech) e Spikevax (dell’azienda Moderna), basati sullo stesso meccanismo. In entrambi i casi, infatti, il principio attivo del vaccino consiste in una molecola di RNA messaggero, quello che nelle cellule fornisce le “istruzioni” per la produzione di proteine; nel caso dei vaccini, le istruzioni consentono di produrre la glicoproteina Spike di SARS-CoV-2. Questa consente al virus di infettare le nostre cellule, ma è anche l’elemento riconosciuto dal nostro sistema immunitario, contro cui può iniziare a produrre anticorpi: è ciò che avviene quando s’inocula l’mRNA nel nostro organismo, che inizia a produrre in modo temporaneo la proteina senza, naturalmente, che vi sia l’infezione vera e propria del virus.

«Oltre all’mRNA che consente la produzione della glicoproteina, un elemento fondamentale degli attuali vaccini sono le microparticelle lipidiche in cui la molecola è avvolta», spiega Marcello Pinti, professore associato di Patologia generale all’Università di Modena e Reggio Emilia. «Infatti, l’mRNA è una molecola molto instabile, che si degrada facilmente: queste strutture consentono di proteggerla e, inoltre, ne permettono l’ingresso nelle cellule, perché sono in grado di fondersi con la membrana plasmatica».

Ricerca di base: trovare un vettore per l’mRNA

In effetti, lo sviluppo di un vettore che consentisse d’introdurre l’mRNA all’interno delle cellule è stato un passaggio fondamentale ma tutt’altro che banale nello sviluppo dei vaccini. L’idea si può far risalire agli studi di Robert Malone, un ricercatore statunitense che alla fine degli anni Ottanta capì che era possibile usare vescicole lipidiche (dette liposomi) per trasferire l’RNA messaggero nelle cellule in coltura e far loro produrre proteine. Tuttavia, è stata necessaria molta ricerca per capire quali lipidi fossero più adatti allo scopo e non fossero tossici per le cellule.

Le microparticelle che veicolano la molecola negli attuali vaccini sono infatti formate da quattro diversi tipi di lipidi (fosfolipidi, colesterolo, lipidi coniugati a glicole polietilenico e lipidi ionizzabili), ciascuno con il suo ruolo: «I lipidi usati a questo scopo devono innanzitutto poter formare con facilità dei complessi con l’mRNA che siano stabili a pH fisiologico. La soluzione è stata impiegare dei lipidi che assumevano una carica positiva a pH acido – sono i lipidi ionizzabili – così che il lipide prenda una carica positiva e si possa complessare con l’mRNA (che è a carica negativa); la molecola che si ottiene ha carica neutra a pH fisiologico», spiega Pinti. «La ricerca sulle molecole che meglio si complessavano con l’RNA è stata condotta in vitro su modelli cellulari; sempre su questi ultimi sono stati condotti gli studi di screening per identificare lipidi che non risultassero tossici. Il passaggio successivo, quello di verifica dell’efficacia di veicolazione, è invece avvenuto prevalentemente su modelli murini (topi), nei quali si verificava anche l’eventuale comparsa di reazioni avverse o l’eccesso di reazione immunitaria».

Ricerca di base: evitare la reazione infiammatoria

Malone, il ricercatore che aveva capito come fosse possibile introdurre l’mRNA all’interno delle cellule senza che venisse degradato, ha avuto anche un’altra intuizione. È stato infatti tra i primi a pensare che questa strategia potesse essere impiegata a scopo terapeutico o, come scrisse in una nota, che si potesse “usare l’mRNA come una medicina”. In effetti, è stata proprio la ricerca orientata a usare l’RNA messaggero a scopo terapeutico a consentire di superare il secondo grandissimo ostacolo che si poneva nel suo impiego sugli organismi viventi.

Infatti, gli studi sull’mRNA avevano evidenziato un problema: il suo inoculo nelle cellule portava a reazioni gravi d’infiammazione e morte cellulare; negli animali, causava shock e morte. Un ostacolo che rendeva impensabile impiegarlo in clinica… Fino a che, nel 1997, Katalin Karikò, biochimica ungherese, e Drew Weissman, immunologo statunitense, non identificarono la soluzione. I due ricercatori stavano lavorando a un vaccino a mRNA che potesse essere impiegato contro l’HIV, e scoprirono che la causa della reazione infiammatoria dipendeva dall’attivazione di recettori noti come Toll-like, delle sorte di “sensori” che per primi rispondono alla presenza di patogeni. Ma l’attivazione si osservava con l’mRNA di sintesi, non con le molecole naturalmente presenti nella cellula; questo perché, come scoprirono i due ricercatori, queste ultime sono modificate chimicamente – e le modifiche consentono di eludere il sistema immunitario.

«Le nostre cellule hanno una serie di meccanismi che consentono loro di riconoscere la presenza di RNA estraneo, come quello dei virus», spiega Pinti. «Le modificazioni chimiche presenti nell’mRNA endogeno fanno invece sì che non si scateni la risposta immunitaria, come una sorta di segnale che la molecola appartiene all’organismo e non a un agente infettivo». Dunque, modificando chimicamente l’mRNA prodotto in laboratorio, simulando quando avviene nelle cellule, è possibile evitare la risposta infiammatoria, come hanno dimostrato nel 2005 Karikò e Weissman. Più precisamente, la modifica che inserirono – e che è la stessa che ritroviamo negli attuali vaccini a mRNA – consiste nel sostituire all’uridina (una delle molecole che costituiscono l’RNA) con la pseudouridina, che differisce solo per un legame chimico.

Il modello animale

Nel contesto dello studio di COVID-19 e delle strategie per combatterlo, non possiamo non citare anche il ruolo dei modelli animali. Non solo, come abbiamo visto, hanno contribuito ad alcuni dei passaggi più importanti che hanno permesso lo sviluppo del vaccino (i test per verificare l’efficacia del vettore, l’assenza di una reazione infiammatoria quando si usa la pseudouridina); sono anche fondamentali per studiare i meccanismi stessi dell’infezione e della malattia, nonché sostanze che possano eventualmente essere impiegate per la terapia. Di questo abbiamo in parte parlato in un approfondimento di alcuni mesi fa, nel quale abbiamo raccontato come i ricercatori dell’IRCSS San Raffaele siano riusciti a mettere a punto un nuovo sistema per simulare il contagio, più vicino a quello naturale. Il modello da loro impiegato, e che in generale è tra quelli più diffusi oggi per lo studio di COVID-19, è un altro esempio di come gli studi degli anni passati possano rivelarsi fondamentali a distanza di tempo. Si tratta, infatti, di una linea di topi transgenici, chiamati K18-hACE2, creata diversi anni fa per lo studio della SARS, che presentano il recettore umano ACE2 usato dal virus per entrare nelle nostre cellule (e che non è presente nei topi in natura). Avere già disposizione questa e altre linee transgeniche che presentano il recettore umano ha consentito ai ricercatori di iniziare a studiare l’infezione in modo molto tempestivo.

Ancora, i criceti sono stati e sono tutt’ora impiegati in ricerca, compresi gli studi su possibili nuovi vaccini, così come i furetti; e un ruolo ovviamente non marginale lo hanno i primati non umani, fondamentali per poter arrivare alle fasi cliniche di test. Questi animali, infatti, presentano una risposta immunitaria più simile a quella umana rispetto ai roditori, e sono dunque particolarmente importanti per lo sviluppo dei vaccini. «Proprio in virtù di questa caratteristica, i primati non umani e nello specifico il macaco rheso, il più impiegato nelle ultime fasi degli studi preclinici per i vaccini, hanno permesso di verificare un aspetto cruciale dei vaccini: la loro capacità di attivare una risposta immunitaria sia umorale (con la produzione di anticorpi) sia cellulo-mediata, cioè quella basata sulla produzione di cellule in grado di uccidere le cellule infettate dal virus», spiega Pinti. «Inoltre, i test sui primati non umani consentono di misurare il titolo anticorpale in seguito al vaccino». Questo perché, come spiega un articolo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), sono proprio i primati a consentire di eseguire test con dosi di vaccino clinicamente rilevanti. Come conclude l’articolo, “Gli studi biomedici che coinvolgono modelli animali hanno contribuito notevolmente alla risposta a SARS-CoV-2, aiutando lo sviluppo di vaccini e trattamenti per la malattia che causa, COVID-19. Gli studi sugli animali continueranno a fornire informazioni vitali man mano che emergono nuove varianti di SARS-CoV-2 e sorgono nuove domande sulla loro trasmissibilità, se sono più dannose per le persone e se rimangono sensibili ai vaccini disponibili”.

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