A settembre, un team di chirurghi della New York University ha annunciato di aver eseguito con successo il trapianto di un rene di maiale, geneticamente modificato, in una paziente dichiarata cerebralmente morta. L’intervento ha avuto successo, segnando un importante traguardo nel campo medico e supportando le grandi potenzialità dello xenotrapianto per chi ha bisogno di nuovi organi: in Italia, tuttavia, questo tipo di ricerche potrebbe essere definitivamente vietato

Nell’autunno di quest’anno, per la prima volta, è stato eseguito uno xenotrapianto (cioè il trapianto di un organo o tessuto proveniente da una specie diversa dalla nostra) di un rene di maiale modificato geneticamente per evitare il rischio di rigetto. L’operazione, condotta su una donna dichiarata morta cerebralmente e tenuta in vita dalle macchine per la respirazione artificiale, è stata eseguita dal team della New York University guidato da Robert Montgomery ed è stata un successo. Sebbene i risultati non siano ancora stati pubblicati su una rivista scientifica né siano stati sottoposti a peer review, infatti, il rene suino ha dimostrato di funzionare e produrre urina e creatinina (una molecola di scarto) senza innescare rigetto nella paziente.

Un traguardo per la medicina

Il rene non era stato impiantato nel corpo della donna ma, come spiega sulle pagine del New York Times Montgomery, il fatto che si sia dimostrato funzionante al di fuori del corpo è già una forte indicazione che potrebbe funzionare anche all’interno, con un trapianto permanente. I problemi di questo tipo di trapianti, infatti, sorgono di solito a livello dell’interfaccia tra i vasi sanguigni che nutrono l’organo e l’organo stesso. «Appariva come qualsiasi altro trapianto abbia mai eseguito da un donatore vivente. Molti reni provenienti da donatori vivi non funzionano bene immediatamente ma hanno bisogno di giorni o settimane per iniziare a lavorare. Questo invece ha iniziato subito», ha commentato il chirurgo, che peraltro è egli stesso stato soggetto a un trapianto di cuore pochi anni fa.

Il successo di questo intervento è uno straordinario traguardo per la medicina. Ogni anno, infatti, migliaia di persone muoiono in attesa di un trapianto. Solo in Italia, la lista di attesa del Sistema Informativo Trapianti del Ministero della Salute, riporta al 23 novembre oltre 8.000 persone in attesa di trapianto, con tempi medi di attesa che vanno, a seconda dell’organo, da 1,7 a 5,3 anni. Purtroppo, infatti, nel campo dei trapianti d’organo la domanda supera abbondantemente l’offerta.

È in questo quadro che s’inserisce la possibilità d’impiegare per i trapianti gli organi provenienti da altre specie, come i primati ma soprattutto i maiali, che si sono rivelati i migliori candidati allo scopo. Oltre a essere facili da allevare, ad avere tempi di gestazione più brevi e cucciolate più numerose rispetto ai primati, infatti, gli organi di alcune razze (tra cui non sono comprese quelle destinate al macello, che risultano troppo grandi) hanno dimensioni e struttura grossomodo simili ai nostri. Gli animali destinati a questo scopo devono ovviamente crescere in condizioni controllate, anche per evitare il rischio di trasmissione di virus specie-specifici.

Xenotrapianti, le prospettive di applicazione

«Gli avanzamenti delle scienze biologiche e, in particolare, la tecnica del CRISPR-Cas9 che è valsa il premio Nobel per la Chimica alle sue scopritrici, Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna, ci possono poi permettere di superare alcune delle criticità che lo xenotrapianto presenta. Tra queste, il primo è senz’altro il rischio di rigetto: modificando geneticamente e con grande precisione il DNA dell’animale, possiamo evitare la produzione delle proteine che innescano la risposta immunitaria, cioè che portano il nostro corpo a riconoscere l’organo come non self, estraneo», spiega Carlo Alberto Redi, biologo cellulare e professore all’Università di Pavia. «E questa tecnica può anche consentire d’inserire invece sequenze provenienti dal genoma umano, così da rendere l’organo o il tessuto ancora più compatibile con il nostro organismo, ed eliminare sequenze appartenenti a virus che si sono integrati nel genoma suino e che possono avere per noi conseguenze dannose».

Insomma, avvantaggiato dalle scoperte e dalle tecniche della biologia molecolare, lo xenotrapianto potrebbe essere la risposta a quella domanda che coinvolge tutti coloro in attesa di un trapianto d’organo. «Se per molte malattie abbiamo terapie e pratiche che possono dare al paziente sollievo o portarlo alla guarigione, in altri casi il trapianto è l’unico intervento terapeutico che può salvare il paziente», spiega ancora Redi. «E l’offerta generosa da parte di chi decide di donare i propri organi in caso di morte, o dei parenti che, quando possibile, li donano ai familiari, non è purtroppo sufficiente a colmare la richiesta nel mondo medico. Il tempo che intercorre tra la necessità e il momento in cui si riesce ad accedere al trapianto è diverso da un organo all’altro ma evidenzia comunque un chiarissimo problema, anche etico: siamo di fronte a una domanda terapeutica che non riusciamo a soddisfare».

Gli studi a rischio in Italia

In Italia, tuttavia, questo tipo di studi potrebbe essere bloccato. Il nostro Paese ha infatti recepito la Direttiva europea 2010/63/EU sulla tutela degli animali impiegati a scopi scientifici in modo molto più restringente rispetto a quanto preveda la Direttiva stessa. Il Governo ha infatti recepito la Direttiva approvando il decreto legislativo del 4 marzo 2014, n. 26, (ne abbiamo parlato anche qui), imponendo strette restrizioni all’impiego di animali per lo studio di sostanze d’abuso e, appunto, per gli xenotrapianti. Tale divieto è stato posticipato più volte, l’ultima delle quali lo ha rinviato fino al primo gennaio del prossimo anno. Questa situazione ci pone, come ben lo definisce un articolo su Nature Italia, in un “limbo legislativo” che ha gravi conseguenze per la ricerca – e, in ultima analisi, a chi ne potrebbe beneficiare -, per esempio per ottenere finanziamenti, che sono assegnati per un tempo di circa 3-5 anni, e ne potrebbe avere di ancora più gravi di più se il divieto divenisse effettivo.

«Il divieto di fare ricerca sulle sostanze d’abuso impiegando gli animali può limitare molti studi volti, per esempio, a sostanze che hanno come bersaglio il cervello, compresi i farmaci indagati per le terapie delle malattie neurodegenerative o il dolore cronico», spiega Giuliano Grignaschi, portavoce di Research4Life. «E, naturalmente, limitare la ricerca sugli xenotrapianti significa ostacolare lo sviluppo di una pratica che potrebbe salvare la vita di moltissime persone. Non c’è una ragione per vietare questo tipo di esperimenti, che non sono poi diversi dagli altri in cui vengono impiegati gli animali, per cui non è affatto chiaro perché in Italia dovrebbero essere vietati. È legittimo porsi dei problemi etici, per esempio, sull’allevamento di animali al solo scopo di prelevarne poi gli organi; tuttavia, vale la pena allora riflettere anche sui molti allevamenti da carne, dove peraltro le condizioni di vita degli animali possono essere ben peggiori di quelle offerte da un laboratorio».

E, conclude Grignaschi, «Sempre dal punto di vista etico, dovremmo poi chiederci: è moralmente accettabile fermare le ricerche quando migliaia di persone sono in attesa di un organo che potrebbe salvare loro la vita? Possono le decisioni politiche andare a svantaggio solo di alcune categorie di pazienti? O la ricerca dovrebbe garantire la stessa dignità a tutti i malati?».

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